Ancora oggi insegnano nelle scuole che, a nove anni, Dante si innamorò di una bambina con il vestitino rosso che aveva all’incirca la sua età: si chiamava Beatrice.
Ma chi era per davvero questa bambina?
Sono molte le fonti ortodosse che spiegano chi fosse. Ecco cosa riporta, ad esempio, l’Enciclopedia Treccani.
“La donna cantata da Dante, di cui si ammette generalmente l’esistenza storica: probabilmente, come attesta anche Pietro, figlio di Dante, si tratta della figlia di Folco Portinari, le cui case erano prossime a quelle degli Alighieri, andata sposa in anno non precisabile a Simone de’ Bardi e morta l’8 giugno 1290.”
Per la famosa Enciclopedia, la donna cantata da Dante sarebbe quindi la figlia di Folco Portinari e riporta la spiegazione dando l’impressione a chi legge che anche Pietro, figlio di Dante, abbia fatto l’accostamento Beatrice/Bice. In realtà non è così. Dopo la morte di Dante, Pietro, infatti, si limitò a osservare che al tempo del padre era effettivamente vissuta a Firenze una donna di nome Beatrice. Riporto le testuali parole di Pietro: “Realmente una signora di nome Beatrice, molto insigne per costumi e bellezza, visse al tempo dell’Autore nella città di Firenze, nata nella casa di alcuni cittadini fiorentini che si chiamano Portinari.”
Pietro non ha mai affermato che Beatrice fosse Bice Portinari. Questa è una forzatura avvenuta con il passare del tempo, dando per scontata una cosa che in realtà non lo è.
A mio avviso, per comprendere meglio la figura di Beatrice è necessario introdurre un elemento che la scuola sottace: la confraternita dei Fedeli d’Amore.
Chi erano?
Per rispondere alla domanda farò riferimento agli studi di Renzo Manetti, scrittore, architetto, professore ordinario dell’Accademia delle Arti del Disegno, che si occupa da oltre venti anni di iconologia e simbolismo. Nel testo Dante e i fedeli d’Amore, l’autore sostiene che solo un intollerabile pregiudizio può negare l’esistenza di una fratellanza che si riconosceva nella mistica dell’Amore. L’autore sostiene che molte canzoni e sonetti del Dolce Stil Novo non sono semplici poesie, ma comunicazioni cifrate, missive che i Fedeli d’Amore si scambiavano, utilizzando un codice che sottintendeva significati diversi da quelli letterali. Era un codice fatto di allegorie, allusioni, il cui senso, nella maggior parte dei casi, ci sfugge, perché era fatto per essere compreso solo da chi ne possedeva la chiave.
Anche Luigi Valli, docente di letteratura e “discepolo” di Giovanni Pascoli, riteneva che i Fedeli d’Amore fossero una setta esoterica e iniziatica che usava un linguaggio segreto per la corrispondenza tra i suoi membri che comprendevano la maggior parte degli appartenenti al Dolce Stil Novo. Valli, morto prematuramente poco dopo aver pubblicamente un’opera dal titolo emblematico Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, ha dedicato la sua vita a indagare la storia della confraternita. Il suo studio su Dante, benché accolto con fastidio e supponenza dalla critica accademica, come del resto anche quello dello stesso Pascoli, presenta pagine illuminanti e difficilmente confutabili.
Il termine che usiamo per indicare questa fratellanza, Fedeli d’Amore, non è stato, però, inventato da Luigi Valli, ma è un termine inventato dallo stesso Dante nella Vita Nuova, l’opera in cui Il Sommo Poeta racconta il suo amore per Beatrice. Proprio in quelle pagine si rivolge ai Fedeli d’Amore come ai soli in grado di comprendere quello che ha scritto. Dante fa capire con insistenza che i suoi versi non sono indirizzati a tutti e per questo usa molte volte espressioni del tipo come appare a chi lo intende. Già nei versi della Vita Nuova si nasconde, dunque, un significato allegorico dietro quello letterale. Il che fa comprendere come questa non sia la storia di un amore terreno, tanto meno di un amore romantico, ma di un’opera esoterica.
Partendo da questi studi si può evincere che Beatrice non era una donna in carne e ossa. Questa ipotesi mi ha così colpito che l’ho voluta riportare anche nel mio romanzo intitolato Rosso scarlatto – Il sangue della croce.
Nell’abbinare Beatrice a Bice, gli studiosi hanno tratto le conclusioni senza tener conto di quello che Dante ha scritto nelle sue opere.
I primi commentatori del Sommo Poeta conoscevano solo una Beatrice simbolica, allegorica. Anche il figlio di Dante, Jacopo Alighieri, sosteneva questo. Solo dopo la morte del Sommo Poeta si cominciò a vedere Beatrice come una donna in carne e ossa. Il primo a sostenerlo fu il segretario di stato bolognese ser Graziolo de’ Bambaglioli in un suo commento all’Inferno. Come ho già scritto in precedenza, alcuni anni dopo, un altro figlio di Dante, Pietro, si limitò a osservare che al tempo di suo padre era davvero esistita una donna con questo nome, la figlia di Folco Portinari.
Allora, come avvenne la fusione tra Beatrice e Bice Portinari? Chi ne fu l’artefice? Molti ricercatori indipendenti non hanno dubbi: fu opera del Boccaccio che porto avanti questa ipotesi nella sua opera Vita di Dante.
E perché lo fece?
Semplice, per depistare chi leggeva. Anche Boccaccio, infatti, faceva parte della confraternita dei Fedeli d’Amore e cercò di nascondere chi fosse per davvero la donna racchiusa nel cuore di Dante. Tutti i poeti di quell’epoca avevano una donna angelo, una donna che rappresentava la propria anima: Lagia, per Lapo Gianni, Fiammetta per Boccaccio, Laura per Petrarca. Solo scavando dentro di sé, l’essere umano poteva trovare il vero amore, quello che lo avrebbe condotto a Dio. Quindi Beatrice altro non era che l’anima di Dante.
E perché dovevano nascondere questa ricerca che li avrebbe condotti a incontrare la propria anima?
Perché se lo avessero fatto alla luce del Sole, sarebbero stati considerati eretici!
Secondo questa visione, infatti, per incontrare Dio bisognava leggere nel proprio cuore, solo così si poteva trovare l’anima, la scintilla divina che appartiene a ognuno di noi. Questo, però, avrebbe reso inutile l’esistenza della Chiesa, dei parroci, dei vescovi e anche dello stesso papa. Sarebbero stati stravolti gli equilibri del tempo e la Chiesa questo non lo avrebbe permesso.
Così, ogni poeta sostituì l’amore e la ricerca del Dio interiore con l’amore per una donna immaginaria.
Può sembrare strano, ma è proprio Dante a fornirci tutte le indicazioni. È lui a farci sapere che Vita Nuova e Divina Commedia sono strettamente legate tra loro. Tutta la Commedia è un cammino mistico verso Dio che avviene per gradi, in modo iniziatico, partendo dalle tenebre infernali, proseguendo per le rampe speranzose del Purgatorio, fino alla contemplazione divina. E questo viaggio si compie dentro Dante. È una ricerca intimistica che deve fare ogni uomo. In questo cammino, dove niente è casuale, Dante inserisce l’elogio al Dolce Stil Novo. Per lui, la poesia rappresenta il passo che precede l’illuminazione, uno strumento indispensabile per trovare la propria anima.
Una tale concezione avrebbe però comportato il superamento della religione cristiana del tempo. La Chiesa sarebbe diventata qualcosa di secondario, di inutile.
Il disegno di Dante probabilmente era già preciso mentre scriveva la Vita Nuova, vero incipit della Divina Commedia ed è stato lo stesso Dante a dircelo. Nella Vita Nuova scrive che non avrebbe più parlato di Beatrice, della donna nascosta dentro il suo cuore, finché non avesse potuto farlo in modo più degno. E questo lo farà proprio nella Divina Commedia.
Quindi la Beatrice del poema capolavoro di Dante è la stessa della Vita Nuova. Le due opere hanno la solita valenza esoterica.
La Vita Nuova non è solo un poemetto giovanile che narra di un amore sublime, cavalleresco, romantico. Non riguarda l’amore di un bambino di nove anni rivolto a una bimba che indossava un vestitino rosso. Ancora una volta è Dante a dircelo, anzi a scriverlo nella Vita Nuova: “Nove anni dopo la mia nascita… mi apparve per la prima volta la gloria della donna della mia mente, la quale molti chiamarono Beatrice perché non sapevano in che altro modo chiamarla.” Se prese alla lettera, queste parole non hanno senso, sono incomprensibili. Se Beatrice fosse stata per davvero la figlia di Folco Portinari, un nome lo aveva, e quel nome era Bice, e i molti, di cui parla il testo, l’avrebbero chiamata così. Questa frase acquista senso solo se ammettiamo che Beatrice fosse, come ci suggerisce lo stesso Dante, la donna della sua mente, cioè quella scintilla divina imprigionata dentro di lui.
Una scintilla pericolosa per la Chiesa del tempo, una Chiesa che non voleva lasciare autonomia ai fedeli. Quindi il Boccaccio, il primo ad associare Beatrice a Bice, lo ha fatto per proteggere Dante e la Divina Commedia dall’accusa di eresia.
Il Medioevo non fu un’epoca facile per i liberi pensatori. A quel tempo, la potenza della Chiesa era incommensurabile. Ad esempio, il cardinale Del Poggetto fece bruciare un’opera di Dante, il De Monarchia e, se non gli fosse stato impedito, avrebbe fatto riesumare e bruciare anche le ossa del poeta.
Dante ha quindi scelto una bambina della propria età, Bice Portinari, che abitava vicino a lui e per la quale forse aveva una certa simpatia, e ha creato una storia d’amore che non avrebbe impensierito la Chiesa. Nel frattempo lui e gli altri autori dello Stil Novo potevano così continuare la ricerca della donna angelo nascosta dentro di loro. La ricerca del divino avrebbe potuto liberare gli uomini da una Chiesa superba, ormai dedita alla cupidigia e alla lussuria, una Chiesa che non si occupava più dell’anima perché impegnata in faccende temporali.
Si possono fare alcuni esempi per sostenere questa ipotesi così ben spiegata da Renzo Manetti e da altri importanti autori prima di lui. Dante scrive nella Vita Nuova:
«Anche se mi piacerebbe trattare ora della sua morte, non è mia intenzione farlo in questa sede per tre ragioni: la prima è che ciò non costituisce oggetto di questo libro; la seconda è che, se anche fosse stato oggetto del libro, le mie parole non sarebbero sufficienti a trattarne come si converrebbe; la terza è che, quando anche le prime due condizioni fossero possibili, sarebbe per me disdicevole trattarne, perché così facendo dovrei lodare me stesso, cosa davvero riprovevole per chi la fa; perciò lascio questo compito ad altri.»
Ecco una disamina sulle parole di Dante riportata da Manetti nella sua ultima opera.
“Il primo motivo per cui Dante ritiene più opportuno il silenzio sta dunque nel fatto che la morte di Beatrice non rientrerebbe nel proposito della Vita Nuova, come lo aveva esposto nel proemio. Ma lì Dante si era proposto di scrivere tutto ciò che ricordava. Dunque il poeta non ricordava niente della morte di Beatrice? Piuttosto strano! In secondo luogo egli, apparentemente correggendosi, spiega che in realtà non è la memoria a difettargli bensì la capacità di trovare parole adeguate a esprimere un avvenimento così elevato. Possibile che un poeta come lui non sapesse comporre versi per lamentare la morte dell’amata? E in terzo luogo, perché Dante avrebbe dovuto lodarsi per la morte della donna che amava? È assurdo, inconcepibile. La risposta a questo terzo elemento ci viene direttamente da uno degli amici più intimi di Dante, il poeta Cino da Pistoia. Sotto l’allegoria della morte di Beatrice, ci fa sapere Cino, si nasconde l’estasi, l’abbandono definitivo delle facoltà intellettive, unico modo per avere l’illuminazione e conoscere la scintilla divina nascosta dentro di noi. La donna angelo, vista come teologia e contemplazione, a un certo punto deve farsi da parte, deve morire per lasciare campo al misticismo. E Dante dice di non volersi lodare, proprio per non vantarsi di essere riuscito a raggiungere la visione di Dio dentro di sé. Solo così le frasi della Vita Nuova hanno senso, un senso mai compreso pienamente da molti studiosi.”
Fu proprio quando scrisse la Vita Nuova, che Dante incontrò la sua anima, spalancandogli la porta sul divino. Solo dopo essere entrato all’interno della confraternita dei Fedeli d’Amore, iniziò il suo percorso verso l’illuminazione riuscendo a comprendere che l’anima è come un’onda: ognuna è diversa dall’altra, ma tutte insieme formano il mare. Anche ogni anima è distinta dalle altre, ma tutte assieme creano quell’energia che poi chiamiamo Dio. Perciò, trovare la propria anima significa immergersi nel mare del divino e capire il Tutto. Ecco perché Bice Portinari non può essere Beatrice.
Molti studiosi indipendenti hanno compreso la natura simbolica e ideale della Beatrice di Dante, ovvero non una donna reale ma allegoria di quell’energia spirituale presente in ognuno di noi, che può esse definita “beatrice” perché conduce alla beatitudine, come conferma Dante stesso: «Veramente nessuno può mettere in dubbio che la sapienza renda l’uomo beato.» La Sapienza conduce l’uomo alla beatitudine celeste dunque la Sapienza può essere definita “beatrice”, che è quanto dirà anche il Petrarca per Laura. Nella Vita Nuova Dante spiega che «i nomi seguitano le nominate cose, si come è scritto» cioè i nomi rivelano la natura delle cose.
Tornando al Boccaccio, in un suo testo scrive che ha rimediato ai suoi errori e di aver volutamente ingannato gli ignoranti, riferendosi evidentemente alla sua opera Vita di Dante, nella quale aveva disseminato false verità. Ecco le sue testuali parole:
“Ho imbarcato il volgo ingrato su una galea, senza vettovaglie e senza timoniere, abbandonandolo in un mare che non conosce, benché presuma di esserne un navigatore esperto: per cui mi auguro di vedere questa nave così fragile sollevar la poppa ed affrontare senza lasciargli scampo; ed anche se sapesse nuotare né rimarrà sconvolto e sgomento. E io, guardandolo dall’alto e ridendo, sarò almeno in parte ripagato dell’inganno e dell’offesa che ho subiti; e questa volta, rinfacciandogli la mente ottusa e la mia fama insultata, gli accrescerò il tormento e l’affanno.”
Un’immagine quella della nave, che ricalca l’ammonimento che Dante ha posto all’inizio del secondo Canto del Paradiso:
“O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.”
Dopo questa disquisizione spero che anche queste terzine della Divina Commedia siano più chiare. Ringrazio Manetti per aver scritto un’opera interessante ed esaustiva che consiglio di leggere.
La continuità di componimenti simili, che rimandano tutti a un senso accessibile solo agli iniziati, dimostra l’esistenza, se non propriamente di una setta, certamente di una confraternita iniziatica, che Dante chiamò “fedeltà di amore” e Petrarca con un termine analogo “amorosa schiera”. Petrarca citò fra i membri di questa schiera Guittone, Franceschino degli Albizzi, Senuccio Del Bene, Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti e Dante, cioè i più importanti poeti dell’epoca.
A mio avviso c’è ancora molto da indagare su questo tema, speriamo che ci siano altri studiosi interessati a farlo e che i liberi pensatori possano finalmente essere veramente liberi di poter esprimere il proprio pensiero.
Di DAVIDE BARONI