LA DIVINA COMMEDIA
Un poema iniziatico

Nel corso dei secoli, La Divina Commedia è stata oggetto di numerose interpretazioni. A mio parere la più interessante, e più vicina alle intenzioni di Dante, è quella che descrive il poema come una critica alla cristianità del tempo. La Divina Commedia, infatti, attraverso un linguaggio iniziatico, è un’opera di denuncia contro la Chiesa, che utilizzava il proprio potere per sottomettere gli uomini. Una Chiesa che, per scopi terreni, si era allontanata dal cristianesimo delle origini, passando dal “porgi l’altra guancia” dei Vangeli alla “guerra giusta” di Sant’Agostino, fino ad arrivare alla “guerra santa” delle crociate.

Per comprendere appieno questa prospettiva, è necessario analizzare il contesto storico e biografico in cui Dante visse ma, per farlo in modo corretto, ritengo sia indispensabile inserire un elemento fondamentale nel percorso del Sommo Poeta, ovvero una confraternita troppe volte ignorata dagli studiosi: i Fedeli d’Amore. Questa confraternita era composta dai maggiori esponenti del Dolce Stil Novo: Dante Alighieri, Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi e, in tempi successivi anche dal Boccaccio e dal Petrarca. Tutti mossi da un desiderio comune: ribellarsi alle ingiustizie perpetrate dalla Chiesa e ristabilire un legame diretto con Dio attraverso la propria anima (scintilla divina che Dante chiama Beatrice, come ho già descritto in un mio precedente articolo).

Ma partiamo dall’inizio. Uno degli elementi chiave per comprendere la critica nei confronti della Chiesa è la situazione personale di Dante. Dopo aver intrapreso la carriera politica a Firenze, il poeta fu costretto all’esilio a causa di motivazioni politiche, un’iniziativa avvallata del Papa dell’epoca, Innocenzo VIII. Questo evento segnò profondamente la vita del Poeta, costringendolo a lasciare tutto ciò che amava: la famiglia, gli amici, la città natale e la carriera politica. L’esilio influenzò ancor più negativamente la sua visione del papato e della Chiesa.

Ma credo che la vita di Dante sia stata stravolta, più che altro, dall’ingresso nei Fedeli d’Amore, fatto che il Sommo Poeta descrive in un’opera troppe volte sottovalutata, Vita Nuova, dove, in realtà, non racconta del suo amore impossibile con Bice Portinari, ma descrive il suo ingresso nella confraternita e l’inizio del suo percorso alla ricerca del divino.

La confraternita dei Fedeli d’Amore ha da sempre affascinato gli studiosi della letteratura e della storia: Ugo Foscolo, Giovanni Pascoli, Gabriele Rossetti, Luigi Valli fino ad arrivare a Renzo Manetti. Tutti hanno cercato di far luce su questa misteriosa e influente associazione, fornendo un quadro più dettagliato delle loro idee e dei loro obiettivi. I Fedeli d’Amore erano ispirati da un profondo desiderio di tornare alle radici del cristianesimo, al di là delle istituzioni e delle pratiche corrotte della Chiesa del tempo. Questi poeti e filosofi volevano ristabilire un rapporto diretto e personale tra l’uomo e Dio, abbracciando l’Amore come forza guida. La loro visione spirituale era radicata nell’idea che l’Amore divino fosse accessibile a tutte le persone senza bisogno di intermediari ecclesiastici. Nella confraternita, Dante emerse come una delle figure più influenti. A mio avviso, la Divina Commedia può essere vista come un manifesto del pensiero dei Fedeli d’Amore. Nell’opera, Dante intraprende un viaggio spirituale attraverso inferno, purgatorio e paradiso, un percorso alla ricerca della propria anima per raggiungere l’unione con Dio. Il tema dell’Amore divino è centrale nella Divina Commedia. L’Amore è l’energia che guida Dante nel suo viaggio e lo aiuta a superare le prove lungo il cammino. Questa concezione dell’Amore come forza purificatrice e trasformatrice si allinea perfettamente con la filosofia della confraternita, che vedeva nell’Amore – cercato attraverso la poesia, la meditazione, la preghiera e la contemplazione – un mezzo per raggiungere l’illuminazione. In questa prospettiva, la funzione della Chiesa diventa inutile, obsoleta, addirittura dannosa, un orpello creato dagli uomini per soddisfare i propri interessi e soggiogare i propri simili. Un luogo di potere e intrighi, dove lussuria, superbia e cupidigia regnano incontrastate. Non sono io a sostenere questo, ma è lo stesso Dante a farlo all’inizio del poema. Analizziamo ora, ma in modo diverso dal solito, il Canto I della Divina Commedia, dove troviamo già una dura critica nei confronti della Chiesa di Roma.

La selva oscura, dove si perde lo stesso Dante, non rappresenta i peccati del poeta o dell’umanità, ma i peccati e le corruzioni della Chiesa. Questa interpretazione sfida l’approccio tradizionale insegnato a scuola e rivela un significato più profondo all’interno dell’opera (che naturalmente i tradizionalisti e gli ortodossi contesteranno).

Le tre fiere che Dante incontra nel primo canto – la lonza, il leone e la lupa – non sono rappresentazioni degli errori umani, ma piuttosto incarnazioni dei peccati della Chiesa del tempo. La lonza, che simboleggia la lussuria, allude alla concupiscenza del clero, inclusi gli scandali legati alla pedofilia e alla ricerca eccessiva del piacere carnale.

Il leone, rappresentazione della superbia, riflette l’arroganza e l’orgoglio del papa che si era sollevato contro l’autorità imperiale, spostando le proprie attenzioni dal piano spirituale a quello materiale. Questo si manifestò attraverso il desiderio di creare uno stato sempre più vasto e potente, slegato dal potere imperiale e addirittura superiore ad esso.

La lupa, simbolo della cupidigia, rappresenta la Chiesa dedita all’accumulo di ricchezze per aumentare il proprio potere e la propria influenza. Questo comportamento all’insegna dell’avidità era in netto contrasto con gli insegnamenti di umiltà e sacrificio predicati dalla figura di Gesù.

Molto significativo è l’uso del termine “Lupa” anziché “lupo”, scelto da Dante, poiché richiama direttamente l’immagine di Roma, evocando il mito di Romolo e Remo, i fondatori della città. Questo collegamento è ulteriormente supportato da alcuni passi biblici dell’Antico Testamento che fanno riferimento alle tre fiere, quasi Dante volesse legare il suo poema alla Bibbia per dare un indizio ai lettori. Ecco due richiami biblici alle tre fiere.

Il primo è tratto dal Libro di Isaia, capitolo 11, versetti 6-9:

6 Il lupo abiterà con l’agnello,
e il
leopardo si sdraierà accanto al capretto;
il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno assieme,
e un bambino li condurrà.
7 La vacca pascolerà con l’orsa,
i loro piccoli si sdraieranno assieme,
e il leone mangerà il foraggio come il bue.
8 Il lattante giocherà sul nido della vipera,
e il bambino divezzato stenderà la mano nella buca del serpente.
9 Non si farà né male né danno
su tutto il mio monte santo,
poiché la conoscenza del Signore riempirà la terra,
come le acque coprono il fondo del mare.

E se in questi versetti le fiere sono buone e si trovano sul monte santo, ce n’è un altro molto più indicativo per apprezzare la scelta di Dante.

Libro di Geremia capitolo 5, versetto 6:

6 Perciò il leone della foresta li uccide, il lupo del deserto li distrugge, il leopardo sta in agguato presso le loro città; chiunque ne uscirà sarà sbranato, perché le loro trasgressioni son numerose, le loro infedeltà sono aumentate.

Ma c’è di più. Prendendo l’intero capitolo 5 del libro di Geremia si può leggere la condanna alla città di Gerusalemme che non rispetta le leggi di Dio, e qui il paragone con la Roma del tempo di Dante sembra calzare a pennello. Basta sostituire il vocabolo Roma a Gerusalemme e siamo catapultati all’epoca di Dante:

1 Andate attorno per le vie di Gerusalemme, e guardate, e informatevi, e cercate per le sue piazze se vi trovate un uomo, se ve n’è uno solo che operi giustamente, che cerchi la fedeltà; e io perdonerò Gerusalemme.

2 Anche quando dicono: ‘Com’è vero che l’Eterno vive’, è certo che giurano il falso.

3 O Eterno, gli occhi tuoi non cercano essi la fedeltà? Tu li colpisci, e quelli non sentono nulla; tu li consumi, e quelli rifiutano di ricevere la correzione; essi han reso il loro volto più duro della roccia, rifiutano di convertirsi.

4 Io dicevo: ‘Questi non son che i miseri; sono insensati perché non conoscono la via dell’Eterno, la legge del loro Dio;

5 io andrò dai grandi e parlerò loro, perch’essi conoscono la via dell’Eterno, la legge del loro Dio’; ma anch’essi tutti quanti hanno spezzato il giogo, hanno rotto i legami.

6 Perciò il leone della foresta li uccide, il lupo del deserto li distrugge, il leopardo sta in agguato presso le loro città; chiunque ne uscirà sarà sbranato, perché le loro trasgressioni son numerose, le loro infedeltà sono aumentate.

7 Perché ti perdonerei io? I tuoi figliuoli m’hanno abbandonato, e giurano per degli dèi che non esistono. Io li ho satollati ed essi si danno all’adulterio, e s’affollano nelle case di prostituzione.

8 Sono come tanti stalloni ben pasciuti ed ardenti; ognun d’essi nitrisce dietro la moglie del prossimo.

9 Non li punirei io per queste cose? dice l’Eterno; e l’anima mia non si vendicherebbe d’una simile nazione?

10 Salite sulle sue mura e distruggete, ma non la finite del tutto; portate via i suoi tralci, perché non son dell’Eterno!

11 Poiché la casa d’Israele e la casa di Giuda m’hanno tradito, dice l’Eterno.

Questi versetti biblici rafforzano l’idea che la “Lupa” rappresenti la Chiesa corrotta allontanatasi dagli insegnamenti spirituali e dedita alle trasgressioni, all’adulterio, all’accumulo di potere e ricchezza. Un Chiesa che ha abbandonato la retta via. La Divina Commedia è quindi un monito scagliato contro le alte sfere ecclesiastiche, un atto di grande coraggio per combattere lo strapotere papale.

Ma c’è un ulteriore elemento che collega le tre fiere a Roma e, per spiegarlo, farò riferimento agli studi del compianto Giuliano Di Benedetti e alla sua ricerca su Dante. Secondo lo studioso, le tre fiere del poema dantesco sono le stesse che, in modo apotropaico, tenevano lontano gli spiriti del male dalle sacre navi di Caligola affondate nel lago di Nemi, vicino Roma. Caligola aveva voluto decorare le navi con dei bronzi che raffiguravano leopardo, leone e lupo. Vicino a questo lago c’era un Bosco Sacro, di grande importanza durante l’epoca imperiale, uno dei luoghi fulcro della famosa – e falsa – Donazione di Costantino, il documento che permise alla Chiesa di scendere nell’arena politica e di ottenere possedimenti territoriali. Sempre secondo Di Benedetti, sarebbe proprio qui che Dante si perse nella selva oscura, uno dei centri nevralgici dal quale è nato lo Stato della Chiesa.

Le navi di Caligola costituiscono uno dei più affascinanti misteri archeologici legati all’Antica Roma. Caligola, l’imperatore noto per la sua stravaganza, commissionò queste sontuose imbarcazioni come parte dei suoi progetti di grandiosità. Queste due imbarcazioni non venivano utilizzate per navigare, perché erano grandi quasi quanto il lago stesso, ma erano dei luoghi di culto e di piacere per l’imperatore. Dopo la sua morte, furono abbandonate e, col tempo, finirono sul fondo del lago. Furono recuperate durante una spedizione archeologica condotta dal 1928 al 1932.

Tuttavia, ciò che più interessa in questo studio sono le decorazioni in bronzo che raffigurano leopardo, leone e lupa. Caligola aveva utilizzato quelle belve come simboli esoterici per scacciare il male dal suo tempio galleggiante dedicato a Iside.

Ma come faceva Dante a sapere di questi bronzi, se le navi sono state recuperate soltanto lo scorso secolo? Perché le navi si trovavano a poca profondità, suggerisce Di Benedetti, e potevano essere facilmente raggiunte da chi si fosse immerso. Secoli fa, le sovrastrutture delle navi emergevano ancora dalle acque tanto era basso il fondale. Dante poteva dunque sapere dell’esistenza di quei bronzi e Di Benedetti suggerisce che abbia voluto inserire nel Canto I proprio quelle fiere per rappresentare ancora una volta Roma e la sua Chiesa.

Come elemento finale, per concludere l’articolo, voglio fare riferimento a uno degli enigmi più studiati della Divina Commedia, quello del “veltro”, figura enigmatica menzionata nel Canto I dell’Inferno e che ancora una volta è legata alla Chiesa:

[la lupa] ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;                                        96

e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.                                     99

Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.                            102

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

Il veltro è un cane da caccia veloce che quando morde una preda la uccide e Dante lo utilizza come metafora per designare la fine del potere della “Lupa”. Le teorie sul significato del veltro sono numerose e spesso oggetto di accesi dibattiti tra gli studiosi. Ma l’ipotesi che mi ha convinto di più, ancora una volta è quella Giuliano Di Benedetti, che associa il “veltro” al termine “feltro”, parola chiave di queste terzine. Il feltro si usa per la fabbricazione della carta. La pasta umida che diverrà foglio veniva messa tra due feltri, “tra feltro e feltro”. Un’esperta di carta antica, durante una trasmissione su questo tema, ha mostrato l’originario procedimento di fabbricazione della carta. Mentre faceva vedere le fibre raccolte in un setaccio e lasciate a essiccare, l’esperta affermava: “Ora le fibre cominciano a feltrire”, cioè la poltiglia, essiccandosi, diventa un feltro. Quindi la carta è un feltro. E cosa c’è di veloce che può alimentare saggezza, virtù e amore, attraverso la carta?

Solo una cosa: la stampa a caratteri mobili. Passando sotto al torchio della macchina molti di questi speciali feltri, si potevano ottenere facilmente tanti libri con all’interno lo stesso testo. Questo permetteva di ottenere numerose copie in modo veloce e a un minor costo rispetto ai manoscritti. Grazie ai libri la conoscenza si sarebbe diffusa tra la gente comune, permettendo la divulgazione del sapere. Questo avrebbe annullato il potere della Chiesa, basato sull’ignoranza delle persone. La carta e la stampa erano strumenti di emancipazione, avrebbero permesso all’umanità di allontanarsi dal controllo dogmatico della Chiesa e di esplorare nuovi orizzonti di conoscenza. La diffusione del sapere attraverso i libri avrebbe tolto il potere alla Chiesa di Roma, alla fiera che aveva impaurito Dante nella selva oscura.

Ma Dante è morto nel 1321 e la stampa, insegnano a scuola, fu inventata da Gutenberg tra il 1453 e il 1455. Com’è dunque possibile che conoscesse già la stampa? Perché, ancora una volta, non è come ci dicono. La tecnica della stampa non fu inventata da Gutenberg, ma dai cinesi attraverso una lunga pratica e ricerca. Dopo l’invenzione della carta in epoca Han (206 a.C. – 220 d.C.) il materiale della scrittura divenne più conveniente ed economico rispetto ai precedenti. Tuttavia la scrittura a mano dei testi era faticosa. Intorno al 600 d.C. i cinesi, ispirati dai sigilli, inventarono la prima forma di stampa su matrici incise che raggiunse il massimo splendore in epoca Song e svolse un ruolo fondamentale nella diffusione della cultura. L’incisione richiedeva però tempo e materiali, inoltre la conservazione di grandi quantità di matrici non risultava conveniente e non era facile correggere gli errori. I caratteri mobili inventati da Bi Sheng, un popolano vissuto al tempo dei Song settentrionali, ovviarono a queste carenze. Bi Sheng fu dunque il primo inventore mondiale della stampa a caratteri mobili, 400 anni prima del tedesco Gutenberg.

Probabilmente Dante, membro dei Fedeli d’Amore, aveva conoscenze maggiori degli uomini del suo tempo e sapeva dell’esistenza di questa tecnologia. In questo modo, la Divina Commedia può essere vista come una profezia implicita del potere rivoluzionario della stampa, anticipando un futuro in cui la diffusione della conoscenza avrebbe portato a una società più aperta, critica e consapevole.

In conclusione, questa interpretazione della Divina Commedia evidenzia l’intenzione critica di Dante nei confronti della Chiesa del suo tempo. Attraverso simboli e allegorie complesse, Dante denuncia la corruzione della Chiesa Cattolica, sottolineando l’importanza di un ritorno alle radici spirituali e al contatto diretto con Dio. Questo approccio critico, spesso trascurato, a mio avviso offre una prospettiva più realistica dell’opera di Dante, evidenziando la sua audacia nel mettere in discussione l’autorità religiosa e sociale del suo tempo.

Di DAVIDE BARONI

 

Un pensiero su “LA DIVINA COMMEDIA E I FEDELI D’AMORE di DAVIDE BARONI”

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