Edward L. Bernays, già nel secondo capoverso del suo celebre saggio del 1928, scriveva con esplicita fermezza: “Noi siamo in gran parte governati, le nostre menti sono plasmate, i gusti vengono creati, le idee sono in gran parte suggerite da persone mai viste e sentite” (“Propaganda – Come manipolare l’opinione pubblica”, shake edizioni).

In quasi un secolo è cambiata probabilmente soltanto una cosa, un piccolo dettaglio sul finale: oggi le persone che suggeriscono in gran parte le nostre idee sono sia “viste” che “sentite”. Si chiamano “influencer”, termine calato dall’alto che (sarà un caso?) contiene la parola inglese “flu” che tradotta sta per “influenza”. Coincidenze, appunto. In realtà non tutte le persone che possiamo definire “grandi suggeritori” sono viste e sentite, perché dietro gli stessi influencer si nascondono figure meno note o del tutto sconosciute ai consumatori finali di quelli che noi stessi chiamiamo “i nostri gusti personali” (torneremo poco più avanti sulla genesi di tali gusti e vedremo che sono personali solo fino ad un certo punto).

Insomma, quello che fu il mestiere del su citato Bernays, il propagandista, di fatto continua ad esistere ma ridimensionato nell’importanza e nell’efficacia, in quanto meno diretto nella sua funzione. Decenni fa il propagandista era essenziale per costruire le abitudini di consumo (ma ancor prima, le abitudini di pensiero dalle quali sgorgano le scelte “personali”), poiché si trattava di porre in essere materialmente l’occasione che facesse nascere nella massa il bisogno di qualcosa, e di conseguenza la necessità di soddisfarlo. Un esempio su tutti, relativo allo stesso Autore nipote di Sigmund Freud (ecco la psicologia!), l’aver sdoganato l’abitudine del fumo di sigaretta tra le donne statunitensi, precedentemente restie per ragioni di costume (indotte pure quelle?) a concedersi tale lusso.
Da Bernays a Sanremo c’è di mezzo un balzo quantico, o forse no. Gli influencer, dicevamo, sono molto meno occulti dei propagandisti di una volta, ma di fatto svolgono la stessa attività: vendono al pubblico i gusti “personali” del pubblico stesso. E non conta molto la presunta forza mentale, morale, culturale, intellettuale o qualsivoglia, del singolo che presume di distinguersi dalla massa, visto che è ben noto il meccanismo per cui “se ti dico di non pensare a un cavallo, tu la prima cosa a cui pensi è proprio un cavallo”. Anche qui: psicologia, Freud,… e Jung! Le negazioni sono un bell’inganno verbale, ci illudono di aver detto quello che volevamo dire e invece abbiamo detto l’esatto opposto. Perché la “mente umana” funzioni così, non è tema di questa breve riflessione. Il punto è che ciò che non sappiamo di noi stessi lo sa per certo qualcun altro. A chi legge (grazie per la fiducia!) basterà risalire di qualche riga per trovare tutte le risposte: è più di un secolo (almeno) che lo studio della psicologia conduce alla conoscenza funzionale della così detta mente umana, con la conseguente possibilità di controllarla o addirittura generarla. Perché vogliamo quello che vogliamo, perché pensiamo quello che pensiamo, perché ci comportiamo come ci comportiamo, abbiamo bisogno di ciò di cui abbiamo bisogno, votiamo come votiamo, ci piace quello che ci piace e, per contro, la negazione di tutte queste ed ulteriori cose, fino all’apatia più totale di uno dei mostri costruiti dalla società che ci circonda: gli hikikomori.

E facendo proprio un salto in avanti e guardandoci intorno, per spiegare finalmente perché siamo rapiti dalle canzoni di Sanremo, o dai tormentoni estivi (e perché diventano tali), o dal nuovo modello di scarpe da ginnastica sempre più costose, o dal classico film italiano da cinema natalizio, insomma, perché ci piace quello che ci piace, può bastare come inizio soffermarsi sui passaggi fondamentali di uno dei capitoli di “Tipi psicologici” che Carl Gustav Jung pubblicò nel 1921, con successive revisioni nel corso di un trentennio.

Prendendo la diffusa edizione italiana per i tipi (è proprio il caso di dirlo) della Bollati Boringhieri, al capitolo 7 intitolato “Il problema degli atteggiamenti tipici nell’estetica” l’Autore spiega usando le parole di Worringer, anche al di là della distinzione per così dire “patologica” tra tipo introverso e tipo estroverso, come funziona il meccanismo dell’immedesimazione, caratteristico di ciò che “ci piace” e contrapposto al meccanismo dell’astrazione che riguarda invece ciò che ci spaventa (do you know telegiornale?).
[A questo punto è doverosa da parte mia una breve parentesi per scusarmi con chiunque, molto più avanti negli studi di me che ho appena appena cominciato, avesse già inorridito parecchie volte a causa di imprecisioni concettuali o terminologiche].
Per cominciare, Jung (pp. 313-315 op. cit.) definisce l’estetica come “psicologia applicata” e riporta la definizione di “immedesimazione” esplicitata da Lipps come “obiettivazione di me stesso in un oggetto distinto da me, sia che quel che viene oggettivato possa chiamarsi sentimento, o meno”. Un processo mentale che, per Wundt, consiste nel trasferimento sull’oggetto di un contenuto psichico essenziale “in modo tale che il soggetto si sente per così dire nell’oggetto”, una proiezione che è inconscia ed è assimilabile al concetto di traslazione di Freud. Cito Jung: “Worringer definisce l’esperienza estetica nell’immedesimazione nel modo seguente: ‘Il godimento estetico è godimento di sé stessi obiettivato.’ Di conseguenza è bella soltanto quella forma nella quale ci si può immedesimare”. Precisando poco oltre che il processo di immedesimazione funziona solo con oggetti non antivitali, cioè belli potremmo dire in modo ancestrale e archetipico (e quindi a livello inconscio).

Anche qui, direi che i puntini ci sono già tutti e basta solo collegarli con un tratto di penna (per chi ne ha ancora una in casa). Se ci piace l’oggetto nel quale possiamo immedesimarci, ecco che non è l’oggetto a piacerci ma il nostro riflesso soggettivo nell’oggetto. Nulla di incredibile per chi, grazie anche alla fisica quantistica, non riconosce una realtà oggettiva bensì la creazione di tante realtà soggettive tramite le proiezioni mentali dell’individuo. Ma il bello (forse) e il pratico di tutto questo discorso sta nel fatto che l’oggetto, in questo caso le canzoni di Sanremo, potrebbe essere stato creato appositamente per intercettare l’immedesimazione di milioni di persone. E la stessa cosa potremmo ipotizzare per tutto il resto degli oggetti mediatici e televisivi in particolare: l’abbigliamento degli artisti (sono artisti, vero?) sul palco dell’Ariston, il palco stesso con le sue dubbie forme e luci, i contenuti parlati tra un brano e l’altro, qualsiasi ulteriore dettaglio e, uscendo dal Festival, moltissimi altri oggetti anche virtuali o immateriali che ci ritroviamo intorno nella vita quotidiana, senza davvero sapere bene perché.

Ma come avrebbero fatto (dando per scontato il “chi”) a sapere quante persone si sarebbero immedesimate negli oggetti prima di crearli e distribuirli al pubblico? Ecco il passaggio storico che da Bernays ci porta a Jung (sebbene fossero parzialmente contemporanei) e cioè dal propagandista ci porta agli influencer: i social, i cookies di navigazione, le autorizzazioni che concediamo a qualsiasi nostra informazione sulle varie app che usiamo ogni ora di ogni giorno, persino le tessere punti per la spesa con il ricatto (pardon, la gentilezza) che si risparmia qualche euro, e qualsiasi altro strumento in grado di tenere traccia delle nostre scelte spicciole, in fatto di consumo e non solo.
Da decenni e sempre di più siamo tutti collegati, siamo tutti tracciati, concediamo tutti pezzi di noi stessi rinunciando alla privacy con la confortevole sicurezza mentale (inconscia?) che “tanto mica possono spiare milioni di persone una ad una…”. No, magari una ad una no, ma tutte insieme su vasta scala con i big data, quello forse sì. Ed ecco come si materializza un oggetto che probabilmente, a livello inconscio, sarà percepito come idoneo all’immedesimazione, quindi “bello”, quindi “mi piace”. E se poi l’inconscio stesso è stato nel frattempo bombardato da anni di TV ed altri contenuti calati dall’alto, allora non solo non ci piace davvero quello che ci piace perché ce l’hanno costruito apposta, ma non ci piace nemmeno quello che proiettiamo nell’oggetto perché ci hanno costruito apposta pure quello, da entrambi i lati. Se Neo in Matrix avesse dovuto piegare una medaglia invece che un cucchiaio, potremmo dire “la medaglia non esiste” né da una faccia né dall’altra.
Ma siccome il sistema è tale proprio perché funziona (altrimenti non sarebbe riuscito a diventare sistema), per chi si sente forte del proprio conscio o padrone del proprio inconscio (emoji che ride) al punto da dire sprezzante a se stesso (mi verrebbe da dire “quale?”) che con lui o con lei questi giochetti non funzionano, arriva il senso di isolamento per cui se l’oggetto (la canzone di Sanremo) ha provocato l’immedesimazione di 7 su 10, gli altri 3 per non passare per scemi si adegueranno e faranno massa acritica. Anche perché chi davvero è padrone di sé probabilmente non guarda Sanremo e nemmeno la TV perché non ne sente il bisogno; da ciò l’implicita predisposizione alla massificazione di chi, pur convinto di essere forte, guarda e si lascia coinvolgere.
Da precisare che l’origine di questa ipotesi di inganno non va certo ricercata nel genio dei cantanti, a volte neppure in quello degli autori, ma, tornando alla premessa su Bernays, negli eredi dei propagandisti di un secolo fa, quelli che oggi suggeriscono certe scelte e certi contenuti che vengono accettati in quanto percepiti come innocui o indifferenti; e quando raramente qualcuno vorrebbe rifiutarsi (di vestirsi in un certo modo o di cantare certe strofe), ecco che il sistema sa essere molto persuasivo: in fondo, basta una tessera punti.
In tutto ciò, anche l’individuo meno allineato e più combattivo si lascia andare ad un salutare “mi piace”, credendo che non ci sia nulla di male, che non si tratti di un compromesso col sistema, che anzi sia un’affermazione di libertà e indipendenza, perché se piace è un gusto personale, da non “disputare” e da non rinunciarci. Forse è così, anzi sicuramente è così nella proiezione mentale di chi si ferma a questa convinzione. Ma non è tutto qui e non è solo questo, anzi.
In conclusione, se vi chiedete “ehi ma questa canzone di Sanremo mi è proprio entrata nella testa e non riesco a smettere di cantarla, come mai?”: la risposta è nella vostra testa. Anche se, parlando di musica vera e citando i Pink Floyd: “There’s someone in my head but it’s not me” (“C’è qualcuno nella mia testa ma non sono io”).

Post Scriptum autobiografico: l’intuizione per questa riflessione mi è arrivata quasi in modo quantico mentre leggevo per la prima volta in vita mia, durante la seconda serata di Sanremo 2024, proprio le pagine dei Tipi psicologici di Jung che ho citato e poco dopo aver visto sui social commenti entusiasti su determinate canzoni diventate immediatamente dei tormentoni. Sincronicità?

Simone Aversano

Un pensiero su “SANREMO E IMMEDESIMAZIONE di SIMONE AVERSANO”

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