(Prima parte: ORIGINE DELLA MASSONERIA IN ITALIA)
Storia della Massoneria in Italia – Seconda parte: l’Unità d’Italia
Terminata l’epopea napoleonica, Re Vittorio Emanuele I° rientrò a Torino dal suo esilio a Cagliari. Un comitato formato dai maggiorenti della città e voluto dalla giunta comunale, decise di edificare un grande monumento, ufficialmente per festeggiare il ritorno del Re. Nel 1818 iniziarono i lavori del tempio detto “Gran Madre di Dio”, in stile classico romano, infarcito di simbologia massonica. Nel luogo di edificazione, narra la leggenda, 2.000 anni fa sorgeva un tempio dedicato alla Dea Iside, ed il titolo “Gran Madre di Dio” era riferito proprio ad Iside, in quanto madre di Horus. I lavori furono lenti e sovente sospesi e furono fatti terminare decenni dopo da Re Vittorio Emanuele II, ed i simboli cattolici, come la croce furono introdotti nel tempio solo nei primi anni del XX secolo.

Nel 1821, anche in Europa, avvennero dei moti, indicati come Liberali, in quanto tendenti ad ottenere la libertà. Questi si svolsero soprattutto in Germania, Ungheria ed Italia. In Germania vennero sventolare per la prima volta, sulle barricate, le bandiere nero/rosso/oro. I colori furono desunti dalle uniformi dell’esercito di Federico Guglielmo di Brunswick, duca di Brunswick-Wolfenbüttel-Oels, un eroe paragonabile al nostro Garibaldi, naturalmente anche lui fervente Massone.

In Italia vi furono rivolte già nel 1820 in Sicilia ed a Napoli, che si estesero l’anno successivo in Piemonte, Lombardia e Veneto. Se in Sicilia si trattò di una vera rivolta, anche con motivazioni locali, come la soppressione formale del Regno di Sicilia ed il suo assorbimento in quello di Napoli, benché entrambi i regni erano governati dal medesimo Re, a Napoli si trattò di una vera rivolta repubblicana e liberale, organizzata dalla Carboneria. Abbiamo già accennato che la Carboneria era una organizzazione politica creata dalla Massoneria. Vi erano riti massonici semplificati e giuramenti di fedeltà, ma i fini erano politici e di maggior diffusione fra il popolo. Il più noto esponente di questa rivolta fu Guglielmo Pepe, che da giovane aveva partecipato alla creazione della Repubblica Partenopea e poi militò nell’esercito napoleonico.
In Lombardia ed in Veneto (Regno Lombardo-Veneto), gli austriaci perpetrarono una repressione durissima, in Piemonte la rivolta aveva come obiettivo l’ottenimento della Costituzione. Il Principe Carlo Alberto di Savoia era erede designato al trono in quanto lo zio regnante, Carlo Felice, non aveva eredi. Il padre di Carlo Alberto, Carlo Emanuele di Savoia Carignano, prima della rivoluzione francese si era trasferito in Francia ed aderì alle idee liberali, Idee che coinvolsero anche Carlo Alberto. Quest’ultimo, a 12 anni fu presentato a Napoleone, il quale lo nominò “Conte dell’Impero”. Morto il padre, la madre Maria Cristina di Sassonia, nel 1812 si trasferì a Ginevra, che allora faceva parte dell’Impero Francese, ed affidò Carlo Alberto all’insegnamento del pastore protestante Jean-Pierre Etienne Vaucher, che propugnava le idee rivoluzionarie. Carlo Alberto entrò alla Scuola Militare ed ottenne il grado di Tenente. Ma Napoleone cadde e lui rientrò a Torino, ove fu accolto dalla famiglia Savoia, evidentemente non a conoscenza delle sue idee.
Nel febbraio del 1821, a Torino, alcuni studenti universitari scesero in piazza a protestare contro l’assolutismo, indossando il berretto frigio rosso. Alcuni di essi furono arrestati ed incarcerati. La mattina successiva tutti gli studenti universitari, guidati da alcuni docenti, scesero in piazza a protestare contro gli arresti e l’assolutismo. I Savoia fecero reprimere la manifestazione e Carlo Alberto si recò all’ospedale a far visita ai feriti. Il 6 marzo una rappresentanza di liberali, repubblicani e massoni, fra cui alcuni ufficiali dell’esercito si recarono da Carlo Alberto per chiedergli il suo appoggio per ottenere la Costituzione. A questo punto, la storiografia ufficiale ci narra di Carlo Alberto che si pente e corre dallo zio ad informarlo di quanto stava accadendo, ma è evidente che si tratta di uno stratagemma retorico redatto a posteriori per poter mantenere l‘unico erede al trono e non far divenire il regno preda della Francia o dell’Austria. In effetti il Re convocò il Consiglio e Carlo Alberto si disse favorevole alla concessione della Costituzione. Alessandria era ormai nelle mani dei militari ribelli, a Torino il 12 marzo cadde nelle loro mani la Cittadella, la rivolta militare, guidata dagli ufficiali, che avevano servito sotto Napoleone, dilagava ed il Re Vittorio Emanuele I abdicò in favore del fratello Carlo Felice, anche lui senza eredi, che però abitava a Modena, quindi il reggente fu Carlo Alberto. I ministri assolutisti si dimisero e Carlo Alberto nominò un nuovo governo più vicino alle idee liberali. Il 13 marzo le vie di Torino erano invase dalla popolazione che chiedeva libertà e costituzione, cosicché Carlo Alberto Concesse la Costituzione, che era stata copiata dalla costituzione massonica spagnola, redatta a Cadice. Il 15 marzo Carlo Alberto giurò sulla costituzione e subito giunsero gli inviati della sommossa in Lombardia e chiesero a Carlo Alberto di dichiarare guerra all’Austria per liberare Lombardia e Veneto. Ma l’esercito piemontese non ne era all’altezza e si dovette soprassedere. Il 21 marzo giunse il Re designato Carlo Felice, il quale dichiarò nulla la costituzione. Carlo Alberto si rifugiò a Novara, si temeva la guerra civile fra le truppe costituzionali e quelle fedeli a Carlo Felice. Il 2 aprile, Carlo Felice ordinò a Carlo Alberto di recarsi in Toscana presso i suoceri, ove era già stata inviata la sua famiglia. Al fine di risparmiare le vittime di una guerra civile, Carlo Alberto partì.
Nel mese di maggio il suocero di Carlo Alberto, il Granduca Ferdinando III° ed il Re Carlo Felice si incontrarono a Lucca e giudicarono Carlo Alberto responsabile di cospirazione. Per ottenere il perdono, Carlo Alberto dovette recarsi in Francia e servire come ufficiale nell’esercito del Re assolutista Luigi XVIII.
Nel 1825 in Russia vi furono i Moti Decabristi (ossia di dicembre) organizzati da società segrete legate alla Massoneria. Simili alla Carboneria, erano: Ordine dei Cavalieri Russi, Unione della Salvezza, Unione della Prosperità, Società del Sud (Kiev), Società del Nord (San Pietroburgo) e Unione Attiva. In esse vi erano molti ufficiali dell’esercito; i moti furono contro l’assolutismo degli Zar. Il 14 dicembre, 3.000 soldati furono guidati, a San Pietroburgo (allora Pietrogrado) in un tentativo di rivoluzione per creare una società liberale e democratica, non per abbattere gli Zar, ma nella speranza di ottenere una Costituzione. Nelle altre città vi erano gli altri gruppi, pronti ad agire. Ma il popolo, non pronto a seguire un tale evento, rimase in disparte. I rivoltosi avevano eletto il Principe Sergej Trubeckoj “dittatore”, nell’accezione della Roma Repubblicana, ossia comandante durante la guerra. I rivoltosi gridavano “Costantino (lo Zar) e Costituzione”, ma le guardie dello Zar attaccarono e sconfissero i ribelli, molti furono degradati e 600 di loro finirono in Siberia ai lavori forzati. Dei moti ne parlarono sia il romanziere Leone Tolstoj che il poeta Aleksandr Puškin.
L’esito miserevole del tentativo di fare la rivoluzione, fece comprendere appieno, che docenti universitari, nobili e alti ufficiali, senza l’appoggio del popolo, non avrebbero mai raggiunto il loro scopo.

Nel 1830 giunse notizia che i francesi avevano cacciato Re Carlo X di Borbone ed avevano offerto la corona a Luigi Filippo d’Orléans, che era favorevole alle idee liberali. Venne incoronato con la frase “per legittimazione del popolo” e non più “per volere di Dio”. Immediatamente in Belgio ed Olanda scoppiarono moti rivoluzionari. Questi si estesero in Assia, Prussia, Hannover e Sassonia, infine in Polonia.
In Italia la Massoneria e la Carboneria non attendevano altro. Immediatamente si diffusero rivolte negli stati papalini: Marche, Umbria, quindi a Bologna. Anche nel Ducato di Modena. A Parma, il 5 febbraio 1831, venne fondato lo stato federale “Provincie Unite Italiane” a cui aderirono Parma, Modena, Bologna, Ferrara, Ravenna, Forlì, Ancona e Perugia. Una vera repubblica parlamentare basata sui principi liberali. Presidente venne eletto Giovanni Vicini. Le baionette austriache la distrussero il 26 aprile successivo. Da Roma giunsero Napoleone Luigi Bonaparte, nipote del grande imperatore, per aiutare nella guerra contro l’Austria, in quanto carbonaro, assieme al fratello minore Carlo Luigi Napoleone, futuro Imperatore Napoleone III. Il 17 marzo, Napoleone Luigi, colpito dal morbillo morì a Forlì. Il piccolo esercito italiano, denominato “Vangardia”, organizzato da Giuseppe Sercognani, tentò una avanzata su Roma, poi non resse all’urto con le truppe austriache ed in breve tutte le città caddero in mano austriaca.
Lo spirito rivoluzionario e repubblicano non si era certamente affievolito, ma la Massoneria comprese che occorreva organizzarsi meglio ed ottenere un maggior appoggio dal ceto popolare. La Carboneria fu incentivata e se ne favorì la diffusione. Si giunse al 1848 quando pareva che tutto dovesse essere pronto.


Coordinati centralmente, i moti iniziarono e si diffusero in Francia, nell’Impero Austriaco, specialmente in Ungheria ed in Germania, dove si diffusero due idee, quella della Grande Germania, con l’unione di tutte le nazioni tedesche sotto la guida austriaca e la Piccola Germania, con l’unione di tutte le nazioni tedesche sotto la guida della Prussia e con l’Austria fuori dall’unione. A Francoforte sul Meno si riunì una assemblea dei rappresentanti di tutti gli stati tedeschi. I vari sovrani non accettarono l’idea di una confederazione, che poi avvenne comunque quaranta anni dopo, e vi fu la repressione dei moti. Così come per l’indipendenza Ungherese, in Austria ed in Francia. Tutti questi moti sono noti come “Primavera dei Popoli”.
Ma noi ci dobbiamo interessare dell’Italia. Il 12 gennaio del 1848 iniziarono dei moti in Sicilia, ove la Massoneria di Palermo, come vedremo più avanti, era molto potente. La richiesta era del ripristino della costituzione del 1812. La notizia giunse a Napoli, ed il 27 gennaio il popolo, organizzato e guidato dai carbonari, scese in piazza a chiedere a Re Ferdinando II° la Costituzione, che venne concessa l’11 febbraio. Costituzione concessa ma disattesa. Cosicché si riunì il parlamento siciliano, il più antico d’Europa, formato dai Baroni. Parlamento che ha origine dalla dominazione Normanna. Nel marzo il parlamento dei nobili dichiarò l’indipendenza della Sicilia. La Sicilia venne riconquistata dai Borbone nel maggio del 1849, nel frattempo erano stati sedati i moti a Napoli e la costituzione dimenticata.
Anche nel Granducato di Toscana vi furono dei moti con la richiesta della costituzione. Il Granduca Leopoldo II, cugino dell’Imperatore d’Austria Ferdinando I, non potendo contare subito sulle truppe asburgiche, concesse la Costituzione, salvo poi disattenderla, con grande disappunto popolare.
A Torino, ove Carlo Alberto era finalmente divenuto Re, approvò lo Statuto Albertino, mantenendone fede. Lo Statuto Albertino rimase la carta fondamentale prima del Regno di Sardegna e poi del Regno d’Italia, sino a quando fu sostituito nel dopoguerra dalla Costituzione Repubblicana, come vedremo.
A Roma il popolo, guidato dai Carbonari e dai Massoni, invase le strade e pretese la costituzione, con relativa perdita dei poteri temporali del pontefice. Con la restaurazione della Repubblica Romana del basso Medioevo, defunta al tempo delle guerre fra Longobardi e Bizantini, con l’assunzione del potere temporale di Roma dal suo Vescovo, il Papa, con il titolo di Duca di Roma. Papa Pio IX fu atterrito dalla folla immensa che circondava il palazzo lateranense e quindi concesse lo Statuto Fondamentale, ossia la costituzione di Roma, ma come le acque si calmarono, lo depose in un cassetto, disinteressandosene. Il nuovo Senato Romano se ne rese conto, ed immediatamente proclamò la Repubblica Romana e tolse il potere temporale a Papa Pio IX. Vedremo fra breve le vicende di questa nuova repubblica.
Nel frattempo nel Regno Lombardo-Veneto, appartenente alla Corona Asburgica, i moti si diffusero in molte città e si ebbe la proclamazione della Repubblica di San Marco, mentre a Milano si ebbero le famose cinque giornate, che diedero vita alla Prima Guerra d’Indipendenza.

Nel Ducato di Modena e Reggio, i rivoltosi chiesero al Duca Francesco V la costituzione. Questi mandò l’esercito a fronteggiarli, ma non si giunse allo scontro, in quanto giunse la notizia che da Bologna stava giungendo una colonna armata di volontari. Il Duca provò a proporre costituzione ed amnistia, ma ormai non era più creduto, pertanto, il 21 marzo del 1848, fuggì in carrozza verso il Brennero per mettersi al riparo presso gli Asburgo. Nel frattempo, a Modena venne costituito un governo provvisorio.
Una curiosità, il Principato di Monaco aveva un lungo legame con la Liguria, ed in effetti si trovava nel Nizzardo, provincia del Regno di Sardegna. Due comuni del principato, Mentone e Roccabruna, si ribellarono e proclamarono l’indipendenza come “Città libere di Mentone e Roccabruna”.
Repubblica Romana
I romani si resero conto che Papa Pio IX ed i Cardinali che governavano Roma non avevano alcuna intenzione di applicare la costituzione e, men che meno, di cedere il potere temporale. Pertanto il 9 febbraio del 1849 i carbonari, i massoni, i liberali ed i repubblicani si riunirono e proclamarono la Repubblica. A capo, come nell’antica Roma fu posto un triumvirato: Carlo Armellini, Mattia Montecchi e Aurelio Saliceti, di cui Montecchi sicuramente massone. Venne scritta la Costituzione Repubblicana ed iniziarono a giungere a Roma volontari da tutta Italia per la sua difesa. Nel frattempo Papa Pio IX era fuggito ed i Cardinali dopo di lui.
L’Assemblea dei rappresentati del popolo aveva come presidente il massone Giuseppe Galletti e vicepresidenti il massone Aurelio Saffi, futuro capo della massoneria italiana ed il Generale Luigi Masi. Giunse Garibaldi che fu posto a capo dei volontari per la difesa della Repubblica. Per la prima volta si videro le Camicie Rosse, giunte dall’Uruguay o dall’Argentina, quelle stesse camicie rosse utilizzate dai Repubblicani sudamericani nelle guerre di indipendenza.

Il decreto fondamentale della Repubblica citava:
«Decreto fondamentale della Repubblica Romana
- Art. 1: Il papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano.
- Art. 2: Il Pontefice Romano avrà tutte le guarentigie necessarie per l’indipendenza nell’esercizio della sua potestà spirituale.
- Art. 3: La forma del governo dello Stato Romano sarà la democrazia pura e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana.
- Art. 4: La Repubblica Romana avrà col resto d’Italia le relazioni che esige la nazionalità comune.»
La notizia della proclamazione della Repubblica Romana giunse a Firenze. Il Primo Ministro toscano, il Massone Giuseppe Montanelli propose al Granduca di inviare a Roma 37 delegati per la Costituente della Repubblica Italiana. Il Granduca nicchiava e Montanelli fece votare ed approvare dal parlamento l’invio dei delegati a Roma, la mattina successiva si presentò a palazzo ducale, ma nella notte il Granduca era fuggito per non firmare, si venne a sapere che si era rifugiato a Gaeta sotto la protezione del Re di Napoli Ferdinando II. Il 15 marzo a Firenze fu proclamata la repubblica.

Presidente della Repubblica Toscana fu eletto il Massone livornese Franceso Domenico Guerrazzi, che assunse il titolo di Dittatore in quanto l’Austria subito minacciò le frontiere.
A Gaeta, il Granduca Leopoldo II° ed il Cardinale Antonelli, a nome di Pio IX, scrissero all’Imperatore Francesco Giuseppe di inviare le sue truppe per “ripristinare l’ordine”. Il Maresciallo Radetzky era a Verona, e ricevuto l’ordine, inviò le sue truppe: dopo la vittoria di Novara, come vedremo, repressi i disordini di Como e Brescia, mentre, proseguiva l’assedio di Venezia, le truppe austriche occuparono prima Parma, quindi passò in Toscana, occupò Luca e Pisa, assediò Livorno, poi entrò a Firenze che però era già sotto controllo dei monarchici.
Un altro esercito austriaco occupò la Romagna, assediò Bologna che fu difesa da 4.000 uomini armati, quindi occupò le Marche, assediando Ancona.
Mentre le truppe Austriache marciavano su Roma, giunse la notizia della disfatta di Novara delle truppe piemontesi. Immediatamente si formò un triumvirato composto dal massone Aurelio Saffi, del massone Giuseppe Mazzini e da Carlo Armellini. Preveniamo le puntualizzazioni del lettore, in molti luoghi si legge che Mazzini non fu Massone, non è vero, fu iniziato a Londra ma la sua iniziazione non era riconosciuta da tutte le comunità.

Oltre agli austriaci che si avvicinavano da Toscana e Umbria, il 24 aprile, a Civitavecchia, sbarcarono 7.000 militari francesi sotto la guida del Generale Oudinot. Inaspettatamente sbarcarono ad Anzio i 600 volontari lombardi che avevano combattuto con i piemontesi nella Guerra 1848/49. Ora, a guerra finita, si imbarcarono a Genova per andare a soccorrere i repubblicani di Roma. Erano guidati dal Colonello Luciano Manara. I lombardi giunsero a Roma e si unirono con i Volontari di Garibaldi. Nel frattempo la Repubblica Francese, di cui Luigi Napoleone Bonaparte, futuro Napoleone III°, era appena divenuto presidente, dichiarò che intendevano rispettare la volontà ed il voto del popolo romano, ma il loro intervento era dettato dalla volontà di difendere gli interessi francesi nell’Italia centrale. A parte le parole diplomatiche, era chiaro che i nemici della Repubblica Romana erano due: Austria e Francia. Il tutto fu chiaro, quando fu presentato l’Ultimatum in cui si chiedeva di non contrastare l’occupazione del Lazio. I Repubblicani avrebbero dovuto favorire i francesi che avrebbero fermato gli austriaci o si sarebbero dovuti difendere da entrambi? E’ vero che Luigi Napoleone era un Fratello Massone, ma era anche a capo di una nazione che vantava diritti sull’Italia centrale da quando nel 1808, Napoleone I°, aveva annesso all’Impero la Toscana ed il Lazio.
La Repubblica Romana aveva un esercito di circa 20.000 uomini, di cui 10.000 a difesa di Roma e 10.000 disposti a difesa dell’invasione austriaca. I francesi avanzarono con 6.000 fanti bene equipaggiati e bene armati, ma senza cannoni; speravano di essere accolti come “liberatori”. Nel frattempo affluivano a Roma volontari e le Guardie Civiche da tutta la Repubblica. Il 30 aprile del 1849 il Generale Oudinot schierò 5.000 fanti francesi davanti le mura di Roma, viste le difese romane schierate, ordinò di avanzare. Il fuoco di sbarramento romano, accompagnato dal fuoco di cannoni, sbandarono i francesi. Garibaldi colse l’occasione ed uscì con i volontari universitari e la Legione Italiana ed assaltò alla baionetta i francesi mettendoli in fuga. Oudinot ordinò la ritirata verso Civitavecchia lasciando sul campo oltre 500 morti e 365 prigionieri.
Mazzini, sperando di ottenere un accordo con la Francia, ordinò a Garibaldi di non inseguire i francesi in fuga e, addirittura, di liberare i prigionieri, come atto di buona volontà, nella speranza di ottenere dalla Francia il riconoscimento della Repubblica. La scelta, pure contrastata nel direttivo della Repubblica, si rivelò un grave errore. Radetzky pensò che le truppe romane non erano così forti e la Francia inviò forti rinforzi per sbaragliare i ribelli che avevano osato attaccare le truppe francesi.
Tutto si acquietò in attesa delle elezioni francesi, Luigi Napoleone temeva l’elettorato moderato e monarchico che pretendeva il ripristino del potere temporale di Papa Pio IX. Così avvenne, la maggioranza assoluta dei deputati (450 su 750) fu dei moderati e monarchici, relegando i Democratici edi Repubblicani ad una piccola minoranza. Luigi Napoleone doveva seguire le aspettative della nuova maggioranza parlamentare o sarebbe stato messo in condizione di dimettersi.
Mazzini e Garibaldi sperarono in un provvidenziale aiuto britannico, che avvenne solamente come fornitura di armi e polvere da sparo. Nel frattempo Re Ferdinando II° stava ultimando di reprimere la rivolta in Sicilia, quindi, per accontentare le continue richieste di Papa Pio IX, ospite nell’imprendibile fortezza di Gaeta, il Re inviò un esercito di 8.500 fanti, cavalleria e ben 52 cannoni. L’esercito borbonico avanzò verso Roma. La Repubblica Romana inviò loro incontro Garibaldi e Manara con 2.300 uomini. Le forze erano impari, ma Garibaldi organizzò l’attacco della sola avanguardia a Palestrina, sconfiggendo, il 9 maggio, gli uomini del Generale Ferdinando Lanza e mettendoli in fuga.
Saputo della vittoria, l’esercito Romano, guidato da Pietro Rosselli ed il massone Carlo Pisacane, che con i loro 10.000 fanti intendevano fermare l’esercito borbonico. Nel frattempo era giunto Re Ferdinando II° con notevoli rinforzi ed al porto di Gaeta era sbarcato un corpo di spedizione spagnolo di 9.000 fanti. Vi fu lo scontro di Terracina e quindi il ripiegamento dei repubblicani a Roma. L’Urbe Eterna era circondata: dal mare i francesi, dalla toscana e dall’Umbria gli austriaci, da sud napoletani e spagnoli. La situazione era disperata. In effetti il 31 maggio il Generale Oudinot, forte ora d 31.000 fanti mosse contro Roma. Ad aiutare la Repubblica era giunta una Legione Polacca guidata dal massone Aleksander Izenschmid, conte di Milbitz. La lotta fu cruenta e con grandi atti di eroismo, ma le forze erano impari. Negli scontri morì, fra gli altri, il massone Goffredo Mameli, autore di quel Canto degli Italiani, che, noto come Fratelli d’Italia, 100 anni dopo divenne l’Inno Nazionali della neonata repubblica. Le truppe guidate da Garibaldi e dal massone Giacomo Medici marchese del Vascello si difesero con onore ma non vi era speranza, Mazzini rifiutò di arrendersi. La battaglia continuò sino al 30 giugno quando gli ultimi focolai di resistenza furono sopraffatti. Il 1° luglio Garibaldi confermò all’Assemblea Costituente che era impossibile resistere. Si decise di abbandonare Roma e di continuare la lotta nelle campagne. La mattina del 2 luglio Garibaldi pronunciò, in piazza San Pietro, un appello:
“Io esco da Roma: chi vuol continuare la guerra contro lo straniero, venga con me… non prometto paghe, non ozi molli. Acqua e pane quando se ne avrà!”
Dando appuntamento alla sera. Si riunirono 4.000 uomini, 800 cavalli ed un cannone; alle 20 uscirono da Roma, prendendo la strada verso nord per andare ad aiutare la Repubblica di San Marco. Ma sconfitti da preponderanti forze austriache in Romagna, l’esercito si sbandò e Garibaldi trovò rifugio nella Repubblica di San Marino. Nel frattempo la Repubblica di Roma veniva sopraffatta dalle truppe francesi, con il ritorno di Papa Pio IX che ripristinò il suo potere assoluto, gestito dai Cardinali.
Il 5 luglio 1848 Mazzini scrisse una lettera ai romani:
“Romani!
La forza brutale ha sottomesso la vostra città; ma non mutato o scemato i vostri diritti. La repubblica romana vive eterna, (…). Dio non tradisce le sue (promesse). Durate costanti e fedeli al voto dell’anima vostra, nella prova alla quale Ei vuole che per poco voi soggiacciate; e non diffidate dell’avvenire. Brevi sono i sogni della violenza, e infallibile il trionfo d’un popolo che spera, combatte e soffre per la Giustizia e per la santissima Libertà.
Voi deste luminosa testimonianza di coraggio militare; sappiate darla di coraggio civile. Dai municipii esca ripetuta con fermezza tranquilla d’accento la dichiarazione ch’essi aderiscono volontari alla forma repubblicana e all’abolizione del governo temporale del Papa; e che riterranno illegale qualunque governo s’impianti senza l’approvazione liberamente data dal popolo; poi occorrendo si sciolgano. Per le vie, nei teatri, in ogni luogo di convegno, sorga un grido: Fuori il governo dei preti! Libero Voto!
I vostri padri, o Romani, furon grandi non tanto perché sapevano vincere, quanto perché non disperavano nei rovesci.
In nome di Dio e del popolo siate grandi come i vostri padri. Oggi come allora, e più che allora, avete un mondo, il mondo italiano in custodia.
La vostra Assemblea non è spenta, è dispersa. I vostri Triumviri, sospesa per forza di cose la loro pubblica azione, vegliano a scegliere a norma della vostra condotta, il momento opportuno per riconvocarla.”
Repubblica di San Marco

Durante la Prima Guerra d’Indipendenza, l’avvocato veneziano Daniele Manin organizzò una rivolta contro il governo austriaco. Il 17 marzo del 1848 la rivolta scoppiò, facendo fuggire i rappresentanti del governo asburgico; il 22 marzo fu proclamata la Repubblica. Da Trieste giunse la notizia che il Governo Austriaco prometteva per il Regno Lombardo Veneto una costituzione e la libertà di stampa.
Il 22 marzo i veneziani, guidati da Manin, occuparono l’arsenale, armando così la Guardia Civica. Le truppe asburgiche abbandonarono la città. Anche le altre città venete si erano ribellate al governo austriaco, mettendo in fuga i suoi rappresentanti. Nel mese di giugno del 1848 l’esercito austriaco riconquistava Vicenza, Padova e Treviso; resistevano Palmanova ed Osoppo, essendo dotate di fortezze.
L’ex ufficiale napoleonico Marco Sanfermo riuscì ad organizzare 2.000 volontari e li guidò contro gli austriaci, in direzione di Verona, sperando di prendere alle spalle gli asburgici che combattevano contro i piemontesi. Radetzky mandò loro incontro 3.000 fanti austriaci. Vi furono gli scontri di Montebello e di Sorio, i caduti veneti furono pochi, ma i volontari non erano addestrati e si ritirarono disordinatamente. Nel frattempo giungevano dalla Croazia 11.000 uomini di rinforzo per gli austriaci.
Il 4 luglio, dopo aver preso contatto con i rappresentanti rivoluzionari lombardi, l’Assemblea della Repubblica votò l’annessione al Regno di Sardegna: 127 furono i voti favorevoli e solo 4 i contrari. Ma le truppe savoiarde erano lontane e aiuti non potevano giungere. Ma Re Carlo Alberto inviò il Generale Alberto Ferrero della Marmora a Vicenza per organizzare un esercito veneto, ma LaMarmora non era un organizzatore e non aveva sui civili una grande ascendenza, anche perché lui parlava francese o piemontese, come tutti i sudditi del Piemonte, e conosceva ben poco l’italiano, italiano anche poco noto ai veneti, che si esprimevano nella loro lingua locale. LaMarmora riuscì a mettere assieme solamente 1300 volontari, si mosse verso il Tagliamento e si trovò dinnanzi un esercito austriaco di 16.000 fanti; LaMarmora diede l’ordine di ritirarsi sul Piave.
Inaspettatamente giunsero le truppe Pontificie, con 11.000 uomini, comandate dal Generale Durando. Le truppe pontificie erano state inviate in Romagna per presidiare i confini per la guerra in corso, ma certamente Papa Pio IX non aveva dato il permesso di intervenire, specialmente a fianco degli italiani contro l’Austria che era la nazione protettrice dello Stato Pontificio. In effetti il Generale Giovanni Durando, assieme al fratello Giacomo, anch’esso patriota ed ufficiale, nacquero a Mondovì in Piemonte e parteciparono ai moti del 1821, dovettero rifugiarsi all’estero e combatterono per diversi eserciti, sino a quello spagnolo, ove Durando raggiunse il grado di Generale; grazie ad una buona lettera di raccomandazione spagnola, fu nominato comandante delle truppe Pontificie. Evidentemente Pio IX non conosceva i suoi trascorsi e lo inviò con il grosso dell’esercito pontificio a difendere il possesso della Romagna e di parte dell’Emilia. Come leggiamo nella sua biografia, Durando, ignorando gli ordini del Papa, attraversò il confine e si recò in Veneto ad aiutare i patrioti. Re Carlo Alberto, che evidentemente lo conosceva dal 1821, lo incaricò di contrastare gli austriaci e di integrare il suo esercito con quello Veneto. Sconfitto da preponderanti forze austriache, si dovette arrendere a Vicenza. Nel frattempo Papa Pio IX venne a sapere di quanto stava avvenendo e si mise a strepitare asserendo di essere stato tradito da Durando. Quest’ultimo riuscì a trovare rifugio in Piemonte e partecipò alla campagna del 1849 a fianco di Re Carlo Alberto.
Facciamo una brevissima parentesi. Nei nostri testi scolastici Papa Pio IX ci viene presentato come Papa Liberale, amico dei patrioti e che le sue truppe parteciparono alla Prima Guerra d’Indipendenza. Come evidente, anche solo per quanto letto sinora in queste pagine, Papa Pio IX era un reazionario che si vantava di far impiccare tutti i patrioti delle Marche e della Romagna, oltre a far decapitare quelli Romani. Il perché di questa mistificazione, fa parte di quella retorica degli anni ’20 del secolo successivo, che dovevano preparare il terreno ai Patti Lateranensi. A riprova che Papa Pio IX era profondamente contrario all’intervento delle truppe pontificie a fianco dei patrioti italiani, fu l’allocuzione ufficiale del Papa, che il 29 aprile del 1848 ebbe a dichiarare: gli ordini al Generale Durando, come comandante in capo dell’Esercito Pontificio, erano “solamente di andare sui confini dello Stato Pontificio per renderli sicuri e che mai (lui, il Papa) aveva dichiarato la guerra ad uno stato cattolico come l’Austria”.
Ma torniamo alla Repubblica di San Marco. Una dopo l’altra caddero tutte le città venete, vi era ancora resistenza in Cadore e sporadicamente nelle campagne, cosicché l’esercito austriaco rivolse la sua attenzione a Venezia e vi pose l’assedio. Il 26 maggio del 1849 gli austriaci catturarono Forte Marghera ed attaccarono il ponte per Venezia, strenuamente difeso dai patrioti. Vennero posizionate le artiglierie ed iniziò il bombardamento della città. L’11 luglio alcuni abitanti di Chioggia cercarono di incendiare una nave da guerra austriaca.
La situazione era già difficile quando nell’agosto scoppiò una epidemia di colera in città. Manin fu costretto alla resa, prendendo la via dell’esilio assieme ad altri patrioti.
Ricordiamo un versetto di una poesia del patriota Arnaldi Fusinato, Padovano, all’epoca volontario per la difesa di Venezia:
Passa una gondola della città.
“Ehi, dalla gondola, qual novità?”
“Il morbo infuria, il pan ci manca,
sul ponte sventola bandiera bianca!”
Dove “il morbo” è il colera ed “il ponte” è quello che unisce Venezia a Mestre.
Prima Guerra d’Indipendenza
Veniamo ora all’avvenimento principale del 1848, ossia la Prima Guerra d’Indipendenza.
La Massoneria e la Carboneria erano ben presenti in Lombardia ed avevano il loro centro a Milano, che era anche la capitale del Regno Lombardo-Veneto. Il presidio militare asburgico era di circa 8.000 militari. I sentimenti indipendentisti della popolazione erano notevoli e quindi i rivoluzionari formarono un comitato, guidato dal massone Carlo Cattaneo. Si ebbero delle prime manifestazioni nel 1847 alla notizia che in Calabria vi erano dei moti antiborbonici. Le manifestazioni antiaustriache aumentarono l’anno seguente alla notizia dello scoppio della rivolta in Sicilia. A gennaio giunse la notizia che Ferdinando II° di Borbone, Re di Napoli, concedeva la costituzione e, subito dopo, giunse la notizia che anche il Granducato di Toscana avrebbe avuto la costituzione. A febbraio si venne a sapere che Re Carlo Alberto di Savoia aveva concesso lo statuto Albertino. Si diffuse anche la notizia che persino Papa Pio IX avrebbe concesso la costituzione, notizia poi rivelatasi infondata, in quanto il Papa preferì fuggire a Gaeta piuttosto che firmarla, così come era fuggito il Granduca di Toscana. Abbiamo visto che venne proclamata la Repubblica Romana ed in Toscana vi era un governo provvisorio repubblicano. Milano e la Lombardia erano in fermento e si venne a sapere che a Vienna l’Imperatore Ferdinando I° aveva firmato la costituzione per l’Austria e che vi erano moti a Budapest ed a Berlino. Il 17 marzo si venne a sapere che Metternich si era dimesso, venne immediatamente deciso di organizzare una manifestazione popolare per il giorno successivo al fine di approfittare della situazione.
Il 18 marzo, la prevista manifestazione pacifica, in breve, si trasformò in rivolta, il palazzo del governatore preso d’assalto ed occupato. Radetzky si rinchiuse nel Castello Sforzesco con i suoi soldati, nel frattempo dalle città lombarde giungevano militari, portando gli austriaci ad almeno 18.000 soldati. Ma in città furono create 1700 barricate, spuntarono i fucili e le bandiere tricolore. A dispetto di tutte le retoriche, l’arma più importante delle “5 giornate di Milano” furono le tegole lanciate dai tetti sulle truppe asburgiche, tegole che facevano ritirare i militari. Il 20 marzo si formò il Consiglio di Guerra ed il 22 il Governo provvisorio.
Le truppe austriache circondarono Milano, ma presso il governo si presentò il Conte Enrico Martini, che era andato a parlare con Re Carlo Alberto. L’esercito piemontese si stata concentrando presso Novara, ma i repubblicani non si fidavano, in quanto Carlo Alberto rimaneva sempre un Re. Si decise di continuare la rivolta come se il Re e le sue truppe non ci fossero, se fossero arrivate, tanto meglio. Dopo 5 giorni di combattimento ed alla notizia della dichiarazione di guerra del Regno di Sardegna all’Austria, le truppe asburgiche lasciarono Milano dirigendosi verso il quadrilatero di Mantova-Peschiera-Verona-Legnago.
L’esercito pimontese era mobilitato dal 1° marzo, quindi il Re, il Governo e lo Stato Maggiore ben sapevano cosa sarebbe dovuto accadere in Lombardia ed a Milano in particolare. Molti alti ufficiali avevano combattuto sotto le bandiere di Napoleone, così come molti ufficiali più giovani avevano partecipato ai moti del 1821. In proporzione allo stato Sardo, l’esercito non era certamente piccolo, Re Carlo Alberto, comandante in capo, disponeva di 65.000 uomini schierati al confine con la Lombardia. La 5° Divisione era comandata dal Principe Ereditario Vittorio Emanuele, futuro Re d’Italia. L’artiglieria era comandata dal fratello di questi, Ferdinando di Savoia-Genova. Il giorno prima di varcare il Ticino, ossia il 24 marzo, alle truppe fu ritirata la bandiera sabauda e consegnato il tricolore.

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Certamente l’esercito piemontese avrebbe avuto la superiorità numerica sugli austriaci nel Lombardo-Veneto, ma se fossero giunti rinforzi da Vienna sarebbero stati guai, quindi i piani predisposti erano di ottenere velocemente la vittoria mentre l’Austria era alle prese con moti a Vienna ed altre città, oltre, soprattutto, la rivolta ungherese. Ma occorrevano aiuti da tutta Italia, al fine di dimostrare all’Austria che un suo intervento non sarebbe stato contro il solo Piemonte, ma contro tutto il popolo italiano. La potente Massoneria Torinese aveva tessuto bene le sue trame, come abbiamo visto, l’esercito pontificio era guidato da un fidatissimo generale piemontese, il Governo provvisorio della Toscana, di Parma e di Modena, tutti fidati, stavano inviando truppe irregolari di volontari. Il Veneto era insorto, la Lombardia pure, vi erano reparti di volontari federalisti, che sognavano un’Italia Federale in cui le varie nazioni si sarebbero unite sotto la guida del Piemonte, pur mantenendo le proprie specificità, come avverrà in Germania nel 1871 sotto la guida prussiana.
Bandiera del Governo provvisorio di Milano. Tricolore con la scritta “Italia Libera, Dio lo vuole”.
Bandiera del Governo Provvisorio del Granducato di Toscana.
Bandera del Governo Provvisorio del Ducato di Parma e del Governo Provvisorio del Ducato di Modena. L’Esercito pontificio adottò la medesima bandiera affiancata a quella pontificia gialla e bianca.
Bandiera dei volontari provenienti dal Regno delle Due Sicilie.
Bandiera dei Volontari Federalisti, compresi quelli dell’Emilia, Romagna e Marche.
Re Ferdinando II° mandò un corpo di 11.000 uomini, ma non è chiaro il suo intento, non credeva nell’Italia Federale, men che meno in un’Italia guidata dai Savoia. Il suo esercito giunse sino alle sponde del Po e poi ritornò in patria, per combattere contro l’autoproclamato Regno di Sicilia.
Regno di Sicilia del 1848.
A capo del Governo Provvisorio vi era Ruggero Settimo, un fervente Liberale Costituzionalista, a capo dell’esercito fu posto il Generale Guglielmo Pepe, già ufficiale al seguito di Napoleone. Quando la Sicilia fu riconquistata dai Borbone, Pepe, con alcuni volontari partì alla volta di Venezia per difendere la Repubblica di San Marco.
La Massoneria organizzò bene gli eventi ma la guerra non lo fu altrettanto. In primo luogo la quasi assenza di coordinamento fra l’esercito piemontese ed i vari reparti che erano giunti da ogni parte d’Italia, poi vi era la questione che, trattandosi di volontari, la loro preparazione militare era scadente se non assente; vi erano veterani delle guerre napoleoniche che fungevano da sottufficiali, ma non ricevevano ordini dallo stato maggiore piemontese, l’alto livello di analfabetismo, le lingue parlate erano sovente un ostacolo in quanto l’italiano, o meglio il toscano come si diceva allora, era conosciuto da pochi. Sovente i gruppi di volontari si aggiravano per le campagne lombarde o venete in attesa di incontrare un reparto piemontese o veneto, con la possibilità di incontrare invece un drappello di dragoni austriaci.
Inoltre vi era il problema delle armi, l’esercito piemontese era ben equipaggiato, quello papalino già molto meno, il nuovo esercito veneto aveva poco più delle armi rubate all’arsenale di Venezia. Tutti gli altri erano armati sovente con vecchi fucili napoleonici; l’artiglieria scarsa, la cavalleria quasi assente, la polvere da sparo in cronica carenza. Senza dimenticare la questione del cibo, che sovente, a parte l’esercito piemontese, lo si recuperava solamente facendo affidamento alla generosità di contadini ed abitanti dei villaggi.
Come visto il 23 marzo il Piemonte dichiarò guerra all’Austria, il 25 le avanguardie attraversarono il Ticino ed entrarono in Lombardia, direzione Milano, proprio mentre le truppe austriache stavano abbandonando la città. Mentre il grosso dell’esercito passava il fiume, una colonna a sud entrava in Pavia, accolta festosamente dal popolo. Le truppe austriache, intanto, si stavano dirigendo al quadrilatero, cosicché le truppe piemontesi attraversarono tutta la Lombardia. Il primo vero scontro avvenne a Goito, vinto dai Piemontesi. Quindi vi fu lo scontro di Villafranca (Villafranca di Verona) vinta dai piemontesi. Il problema fu che in quei giorni i rinforzi austriaci stavano giungendo attraverso il Friuli ed il Veneto. Pertanto i piemontesi avevano fretta ed il 27 iniziarono l’assedio di Peschiera, sperando che i veneti e l’esercito pontificio fermassero, o quantomeno rallentassero, l’arrivo dei rinforzi austriaci. Il 30 aprile i piemontesi sconfissero gli austriaci a Pastrengo avanzando sino alle sponde dell’Adige. Il Generale Durando informò Carlo Alberto che il 29 aprile era stato informato che Papa Pio IX che ordinava all’esercito pontificio di ritirarsi immediatamente dalla guerra. L’esercito pontificio si sbandò parzialmente, mentre i rinforzi austriaci avanzavano. Il neonato esercito repubblicano veneto non riusciva a dare un buon supporto. Inviato LaMarmora ad aiutare il fronte veneto, questi si dovette attestare sul Piave. Nonostante l’esercito pontificio rifiutò di ubbidire Papa Pio IX e rimase agli ordini di Durando, era ormai impossibile fermare le preponderanti truppe austriache in arrivo. Parte di queste giunsero a Verona il 25 maggio.
L’esercito austriaco, ora rinforzato, mosse verso Curtatone e Montanara, ove erano dispiegati 5400 soldati fra volontari toscani ed abruzzesi appartenenti all’esercito del Regno di Napoli, che avendo finto di non ver ricevuto l’ordine di rientro in patria, si erano portati in aiuto dei volontari italiani. Con loro un distaccamento piemontese di 2500 fanti. L’esercito austriaco contava 20.000 uomini. La battaglia fu aspra, gli austriaci compirono diversi assalti e solamente verso sera, saputo che alle loro spalle, a Goito, l’esercito piemontese era schierato, si ritirarono con ordine.
A questo punto Radetzky affrontò Goito con 26.000 uomini. L’eroico scontro infranse le velleità austriache e gli austriaci dovettero ritirarsi. Proprio quella sera giunse la notizia che Peschiera si era arresa ed i soldati gridarono “Carlo Alberto Re d’Italia”. Ma la guerra non era ancora vinta.
Il 10 giugno gli austriaci conquistarono Vicenza alle truppe venete e quelle pontificie, che non vennero catturate a patto che si ritirassero a sud del Po e non combattessero per almeno tre mesi. Seguirono scontri con alterne vicende sino a luglio quando, a Custoza, si riunirono e si schierarono i due eserciti. Gli italiani, ossia piemontesi e volontari erano 75.000 e gli austriaci 76.000, però con cavalleria e artiglieria preponderanti. Inoltre le truppe piemontesi erano molto stanche e parte dell’esercito era formato da volontari certamente non all’altezza dell’addestramento austriaco. La battaglia fu costituita da una serie di scontri fra il 22 ed il 27 luglio. Nonostante il valore profuso, la superiorità austriaca portò alla vittoria asburgica. Fu sconfitta ma non disfatta e l’esercito si ritirò alquanto ordinatamente, mentre alcuni ufficiali insistevano per un ridispiegamento sul Ticino, altri riferivano che, con il sopraggiungere di rinforzi austriaci, sarebbe stata la disfatta. Il Re, favorevole a continuare la guerra, fu convinto a firmare l’Armistizio di Salasco che interrompeva gli scontri in attesa di un accordo di pace.
La Lombardia fu rioccupata dagli Austriaci e successivamente completarono la riconquista del Veneto sino alla resa di Venezia, come visto.
Nel frattempo era giunto Garibaldi dal Sudamerica, con il suo carattere indomito, raccolse 5.000 volontari e conquistò Bergamo, quindi si spostò a Como ove lo raggiunse la notizia dell’armistizio. Entrato in Piemonte parlò con il Duca di Genova, il quale gli ordinò di rispettare l’armistizio. Invece Garibaldi, con meno di 1.000 uomini riattraversò il confine e si diresse verso Varese. A Luvino (oggi Luino) si scontrò con un reparto austriaco e, dopo un breve scontro, lo mise in fuga. Radetzky mandò a lui incontro un forte distaccamento; sentitosi braccato, Garibaldi riparò in Svizzera.
Abbiamo visto precedentemente la creazione del Regno di Sicilia. Il suo parlamento riunito nominò Re di Sicilia Ferdinando di Savoia-Genova. Ma il Piemonte non era in grado di affrontare una guerra contro il Regno di Napoli in quanto usciva dalla sconfitta di Custoza ed aveva appena firmato l’armistizio con l’Austria.
L’ultimo centro di resistenza agli austriaci fu ad Osoppo, in Friuli, dove 350 patrioti si arresero agli austriaci solamente il 13 ottobre. Nel frattempo, come visto il 9 febbraio del 1849 fu proclamata la Repubblica Romana e Mazzini e Garibaldi vi accorsero.
L’esercito piemontese venne riorganizzato, vennero arruolati nuovi giovani, i volontari vennero integrati, la fanteria leggera (i bersaglieri) furono potenziati e venne chiamato al comando il Generale Polacco Wojciech Chrzanowski, che aveva combattuto con Napoleone. Il parlamento piemontese votò (94 a 24) la ripresa della guerra. L’esercito era formato da 150.000 uomini, tolte le guarnigioni ne rimanevano 115.000, dei quali solamente 62.000 in prima linea, ossia con un esercito inferiore a quello dell’anno precedente, con le truppe austriache rinforzate in Lombardia. In effetti vi erano in Lombardia 75.000 austriaci ed altri 25.000 in Veneto.
L’accordo prevedeva che se il Piemonte avesse voluto riprendere le ostilità, avrebbe dovuto dare un preavviso di otto giorni, così avvenne ed il 20 marzo del 1849 l’esercito passò il Ticino. Inaspettatamente gli austriaci attaccarono a Pavia, ove Luciano Manara, con i suoi bersaglieri resistette da solo per ben sei ore. Si trattava del Manara che poi raggiunse Garibaldi a Roma, come visto. In breve furono perse Pavia, Mortara e Vigevano. Presso Vigevano vi fu la battaglia della Sforzesca ove i piemontesi fermarono gli austriaci. A Mortara gli austriaci, con mossa a sorpresa misero in fuga parte della riserva piemontese, che si ritirò verso Vercelli.
Il 23 marzo gli austriaci, resosi conto del caos che regnava fra le truppe Piemontesi, delle quali avevano già fatto 2.000 prigionieri, avanzarono con decisione verso Novara. I piemontesi si disposero a difendere la città e la strada per Torino, disponendo solamente di 45.000 fanti, 2.500 cavalieri e 109 cannoni, mentre gli austriaci attaccavano con 70.000 fanti, 5.000 cavalieri e 205 cannoni. Ciò nonostante i piemontesi presero l’iniziativa ed attaccarono con vigore e coraggio, ricacciando gli austriaci, ma questi si riorganizzarono e contrattaccarono respingendo i piemontesi prima contro le mura di Novara, poi verso l’Abbazia di San Nazzaro. Qui il Duca di Genova dispose l’estrema resistenza dando il tempo all’esercito Piemontese di ritirarsi ordinatamente verso Torino.

Occorre doverosamente ricordare che alla notizia della sconfitta di Novara, la città di Brescia si rivoltò al dominio asburgico e per ben dieci giorni i suoi patrioti combatterono con ardore, sino a quando l’esercito austriaco riuscì a prendere il controllo della città.
Carlo Alberto chiese a Radetzky le condizioni dell’armistizio, questi pretese l’occupazione, sino alla firma della pace, di Alessandria, con la sua fortezza, e la provincia della Lomellina. Carlo Alberto non poteva accettare un simile affronto, dinnanzi al suo stato maggiore abdicò e consegnò il Regno al figlio Vittorio Emanuele, che assunse il nome di Vittorio Emanuele II. Il 24 marzo a Vignale, non lontano da Novara, il neo-Re Vittorio Emanuele si incontrò con Radetzky. Concordò che ad Alessandria rimanesse una guarnigione piemontese sotto l’occupazione austriaca. Radetzky invio 20.000 uomini ad occupare Lomellina ed Alessandria. Il 6 agosto del 1849 fu firmata la Pace di Milano e gli austriaci si ritirarono. Il trattato di pace prevedeva la conferma dei confini del Congresso di Vienna del 1815, la rinuncia alle pretese piemontesi sui ducati di Parma e Modena, pretese ad antiche parentele dei Savoia, ed il pagamento di 75 milioni di franchi come riparazione dei danni di guerra.
Il Piemonte si indebitò ma non perdette territori, in quanto all’Austria faceva comodo uno stato cuscinetto fra il Lombardo-Veneto e la Francia. L’altro grande cambiamento è che il Regno di Sardegna passò da un Re, Carlo Alberto, sicuramente vicino alla massoneria ed alla carboneria, di idee liberali e democratiche, ad un nuovo Re, Vittorio Emanuele, massone convinto che si appoggiò ad essa per coronare il sogno del padre, unire l’Italia e gli italiani.
FINE SECONDA PARTE – CONTINUA…
di MARCO E. DE GRAYA
(Prima parte: ORIGINE DELLA MASSONERIA IN ITALIA)
Molto interessante, soprattutto andare un po’ più a fondo della realtà del Risorgimento. Mi spunta una domanda, penso ovvia, i massoni pro unità d’Italia, con una parte desiderosa di una Repubblica, dove sono in questo momento così critico per l’Europa e in modo particolare per l’Italia? Sono cambiati i giochi? Quali sono gli interessi della Massoneria oggi? Grazie F.R.
Ciao Flavia, domanda interessante, a cui però non so risponderti. All’epoca avevano l’obiettivo di unificare Italia e Germania, dare l’indipendenza a Grecia, Ungheria e Polonia. Far approvare la Costituzione un po’ ovunque (Spagna, Portogallo etc). Raggiunti questi obiettivi (ipotizzo) si dedichino allo studio delle antiche sapienze (Alchimia, Templari, Egitto etc) … In realtà avevano ancora due progetti, che però mi pare siano decisamente abortiti: unione di tutti i popoli europei, ricordi della Giovine Europa di Mazzini creata dopo la Giovine Italia. L’altro progetto era quello di un governo mondiale per dirimere le liti fra le nazioni. Teoricamente sarebbe l’ONU, ma mi pare che in realtà sia baraccone costoso ed inutile. Ciao.