Nessuno può insegnare nulla a nessun altro. Anche perché l’altro sono io, gli altri siamo noi stessi. Chi non ci crede, ripassi più tardi. E non si tratta nemmeno di credere, quanto di sapere, sentire, esserne consapevole. Gli altri siamo noi perché proiettiamo all’esterno ciò che siamo, ciò che vogliamo, compreso quello che non abbiamo la minima idea di volere, per le ragioni di cui abbiamo già provato a trattare in precedenza. Infatti siamo quello che non siamo anche in questo senso.
Nessuno può insegnare agli altri è una faccia della medaglia; l’altra è una frase di Nietzsche che personalmente ho impiegato 20 anni a comprendere, ammesso che dopo tutto quel tempo ci sia riuscito davvero (probabilmente l’ho compresa solo finché non comprenderò che non l’avevo compresa davvero).
“Ciò che si fa per amore lo si fa sempre al di là del bene e del male”.
Leggendola per la prima volta da adolescente, per identità percepita e cultura circostante nel contesto familiare e sociale, mi dissi: “ma come può l’amore prescindere dal bene?”.
Ecco perché mi ci sono voluti almeno 20 anni per capire cosa significasse davvero questa affermazione, quale concetto celasse. Com-prendere è infatti afferrare, acquisire quasi fisicamente nella percezione che non è razionale, se non per il tramite (anche) della razionalità.
Per comprendere come possa l’amore prescindere dal bene, bisogna chiedersi che cos’è il bene. Chiedersi che cos’è il male potrebbe essere un’attività assorbita, alla fine, nello svolgimento della risposta alla prima domanda.
Se l’amore può essere bene, il bene deve essere oggettivo. Il Bene come entità, assoluto, eventualmente come forma divina o trascendente. Se il bene fosse soggettivo, infatti, avremmo la risposta alla domanda: l’amore deve prescindere dal bene perché altrimenti non sarebbe amore, bensì possessione ed oppressione, condizionamento e limitazione alla libertà di essere, cioè al percorso di acquisizione di consapevolezza per comprendere io chi sono.
Esemplificando: io ti voglio bene cioè voglio il tuo bene, ma se questo si traduce nel volere ciò che secondo me è il tuo bene (o il bene in generale) allora non voglio il tuo bene e non ti voglio bene; al massimo voglio il mio bene, quindi voglio bene solo a me stesso, che sia o meno riflesso nell’altro che sei tu.
Allo stesso modo, se io ti amo non posso con ciò intendere che voglio per te solo il bene, perché senza il male non si cresce, non ci si evolve, non si acquisisce consapevolezza. Tutto serve, tutto è utile, tutto genera. Tutto, a patto di metterci consapevolezza e volontà. Se si è consapevoli e di conseguenza si fa ciò che si vuole, allora va bene qualsiasi cosa, anche ciò che ricade sotto l’etichetta di male. Potremmo spenderci in esempi tosti, che toccano la sopravvivenza o la sofferenza fisica, ma non occorre. Basta richiamare uno dei classici esempi utilizzati da Corrado Malanga nelle sue conferenze più recenti: se una persona mi chiede di avvitargli una lampadina e io gliela avvito, non la sto aiutando affatto perché la prossima volta questa persona continuerà ad aver bisogno di me per avvitare la sua lampadina, chiedendomi nuovamente aiuto e ricominciando il giro daccapo. E cosa si è prodotto in questo modo?
Due cose: il percorso di acquisizione di consapevolezza di quella persona è stato sbarrato, mentre io mi sono illuso di essere stato una brava persona dando una mano a chi mi ha chiesto aiuto (ed ho contemporaneamente alimentato la mia convinzione di essere utile o indispensabile a quella persona, rimanendo in uno stato di bisogno).
Il problema è di tipo inflazionistico, perché più una persona rimane bloccata nel suo percorso coscienziale, meno sarà capace di comprendere che esiste un percorso coscienziale, e più io penserò di star facendo del bene agli altri meno capirò che invece gli sto solo negando la loro esperienza (cosa che, come abbiamo visto, ne rappresenta l’unico vero costo). In altre parole, più quella persona avrà bisogno che io le avviti la lampadina, meno capirà che la lampadina può anche avvitarsela da sola, e più io penserò che sia giusto avvitarle la lampadina meno capirò che di farlo ho veramente bisogno solo io.
Possiamo quindi dire che il bene è ciò che consente di proseguire verso la propria libertà e felicità, il male tutto ciò che impedisce questo percorso. Ma nel momento esatto in cui abbiamo affermato ciò abbiamo detto anche un’altra cosa: che serve anche il male, serve bloccare le esperienze, perché per alcuni è necessario un blocco per sbloccarsi, reagire, uscire fuori e iniziare il processo di comprensione. Se sei chiuso dentro una stanza con la porta aperta, potresti non percepire la necessità di uscirne; ma non appena viene chiusa la porta, magari con un giro di chiave, ecco che l’esigenza di scappare via esplode.
C’è chi ha bisogno di una limitazione della propria libertà per desiderarla e rincorrerla, e poi c’è chi scopre di poter essere libero e felice senza traumi palesi. In realtà, tutti arrivano a questa seconda situazione, ma molti solo dopo aver avuto il bisogno di vivere la prima.
In maniera più brutale: per certi versi, il bene è male e il male è bene.
Ma entrambi sono nella dualità, mentre l’amore, secondo Nietzsche, si colloca su di un piano superiore, come il terzo punto che crea il triangolo e quindi la geometria. Né bene né male significa essere indifferenti ad entrambi, indipendenti da entrambi, non abbisognevoli di nessuno dei due.
A livello esecutivo e pratico, chi ama lascia vivere, letteralmente. Se ti amo, non ho la preoccupazione che tu possa stare male, sbagliare, cadere, farti male, soffrire; così come non ho la necessità che tu possa stare bene, fare bene, progredire, trovare benessere, gioire. Un disinteresse evolutivo che non è menefreghismo ma rispetto del percorso altrui, nella certezza che ogni aiuto è un atto invalidante del percorso di acquisizione di consapevolezza. E se non sono preoccupato è perché non ho bisogno né del tuo bene né del tuo male, ma solo della tua libertà e felicità, cioè della tua consapevolezza.
Malanga faceva anche l’esempio dell’aiutare la vecchietta ad attraversare la strada, che ci torna molto utile nel discorso relativo ad altruismo ed egoismo.
Infatti, che cos’è l’altruismo se non la proiezione sugli altri del proprio autocompiacimento? Io ho fatto del bene secondo me, sono stato bravo secondo me, quindi sono stato altruista. Falso! Falso, ipocrita e ingannevole! E la religione attinge a piene mani a questo serbatoio di misera soddisfazione, dannosa per se stessi e per gli altri perché crea, tra le altre cose, divisioni involutive, risentimenti e conflittualità.
Quando diciamo secondo me intendiamo il fare del bene secondo la propria idea di bene, essere bravi secondo la propria opinione al riguardo, sempre ammesso che si possa parlare di propria idea e di propria opinione, al netto di ciò che ci siamo fatti inculcare.
La religione, in particolare quella cattolica, si fonda su paura e senso di colpa, ma anche sulla vigliaccheria di volersi sentire giustificati rispetto agli altri nell’aver fatto del bene, nell’essere stati bravi (non si fonda sull’amore, come viene proclamato, poiché l’amore non conosce bene e male e di conseguenza non può conoscere nemmeno la cappa oppressiva di giusto e sbagliato). Non mancano esperienze di persone che, nel momento in cui pregano o praticano in chiesa, pensano abbastanza consciamente che tutto sommato gli altri sono tutti un po’ meno buoni e meno bravi, con spirito di autoassoluzione che conduce alla vigliaccheria di cui dicevamo.
L’altruismo è la peggior forma di egoismo, perché autosuggestionandosi di essere belli, buoni e bravi, di aver fatto del bene e di essersi comportati bene, di aver amato e voluto bene agli altri, ci si attribuisce l’etichetta altruistica nel momento stesso in cui si fa tutto questo soltanto per se stessi. Solo che (forse) non ce ne si accorge.
Esempi di relazioni basate su un presunto altruismo, specie nelle famiglie, si sprecano. La cosa che è più utile dire a questo punto è invitare le persone a non sentirsi in colpa se un amico o un familiare ci rimane male per una nostra scelta o un nostro comportamento, perché chi ci rimane male non ci ama davvero, non ci vuole bene davvero, forse non ci apprezza e non ci stima nemmeno, ma vuole egoisticamente solo il mantenimento o il raggiungimento di una situazione comoda e conveniente per sé, venendocela a raccontare come il nostro bene e la cosa migliore per noi.
“Ama e fa’ ciò che vuoi”, affermava Agostino d’Ippona.
In effetti, le due cose coincidono.
Amare, al di là del bene e del male, è in definitiva nient’altro che conoscere se stessi.
di Simone Aversano
Questo è il terzo articolo di una serie ispirata al percorso “Conosci te stesso”, i primi articoli sono disponibili cliccando sui seguente link:
1 – “Siamo quello che non siamo“;
2 – “Il costo dell’esperienza“;
Per approfondire le tematiche dell’articolo, ecco la playlist alla terza stagione del format “Conosci te stesso”, appuntamento settimanale con il dr. Pierluigi Mulattieri andato in onda sul canale youtube MesbetTV: