“Mi dispiace per te”. Quante volte ci siamo sentiti rivolgere questa frase? Quante volte l’abbiamo pronunciata noi all’indirizzo di persone a noi vicine, o rispetto alle quali volevamo apparire vicini e solidali?
Il dispiacersi per l’altro è la moneta per comprare il suo affetto e la sua riconoscenza. Siamo ancora pienamente immersi nell’altruismo che in realtà è la più profonda forma di egoismo. Più sincero e veritiero non pensare all’altro, non prodigarsi, non interessarsene, non rivolgersi con frasi di circostanza o di apparente sostegno: con tale atteggiamento almeno si lascia quel margine di libertà all’altro che gli consente di scegliere se procedere nel proprio percorso di acquisizione di consapevolezza, oppure rimanere bloccato così com’è.
L’egoismo del dispiacersi per l’altro nasconde anche un altro sentimento: l’autocompiacimento per non trovarsi nella situazione spiacevole dell’altro, non in quel momento almeno. Ma stiamo parlando di pura illusione, e la sensazione che sia tale serpeggia latente poco al di sotto di questi pensieri.
Dicevamo in precedenza anche che dire “ti voglio bene” non esprime pienamente ciò che sembra esprimere, perché nel bene che si vuole per l’altro c’è in realtà il bene che si ritiene per se stessi, anche se proiettato sull’altro. Il bene dell’altro non è altro che la situazione comoda e piacevole che desideriamo per noi stessi nel rapporto con l’altro. “Non andare lì, non fare così, perché sarebbe meglio per te se…” significa più o meno velatamente e vigliaccamente “non sta bene a me e non fa piacere a me se tu fai così o vai in quel posto”.
Tutto ciò che ci accade intorno è un riflesso di ciò che siamo. Tutto intorno a noi c’è uno specchio sferico che ci restituisce l’immagine di quello che siamo veramente e profondamente.
Su questo concetto si potrebbero citare talmente tanti autori, correnti di pensiero, filosofie e tradizioni mistiche da non rendere necessario fornire spiegazioni. Anche perché, secondo la logica stessa dello specchio, la spiegazione sta nell’affermazione di per sé. In ciò che genera c’è già ciò che viene generato e ciò che viene generato è ciò che genera, che lo ha generato. È molto più semplice di ciò che sembra, anche se non sembra semplice proprio perché specularmente lo è: ciò che genera può generare solo in quanto esiste ciò che viene generato, quindi è ciò che viene generato che genera l’attributo genetico (proprio della genesi) di ciò che genera. Esemplificando: l’uovo è la gallina e la gallina è l’uovo in quanto senza uovo non servirebbe alcuna gallina e senza gallina non servirebbe l’esistenza di alcun uovo.
Quindi, io sono l’altro.
Stiamo rispondendo alla domanda fondamentale io chi sono? ma solo in parte, solo per una parte del percorso di acquisizione di consapevolezza; perché comprendere e riconoscere che io sono dentro lo specchio, che io sono l’immagine riflessa, che io sono ciò che mi si para davanti, è un passaggio strumentale per giungere ad una comprensione più alta ma non definitiva, poiché da quella postazione il percorso prosegue nella direzione del più profondo contatto con il proprio Sé.
Io sono l’altro nel senso che le persone che mi circondano, il modo in cui si comportano, quello che dicono, l’atteggiarsi stesso del paesaggio circostante e dell’ambiente oggettuale nel quale vivo, così come la versione negativa per sottrazione di ognuna di queste cose (cioè anche le infinite potenzialità che non si verificano), sono un messaggio che dal mio profondo esce fino al punto più distante per rimbalzare nuovamente verso l’io e giungere a stimolare ancora il profondo del Sé.
Come nel movimento dei pipistrelli e di altri animali, che si orientano tramite la percezione del suono che gli viene restituito dagli oggetti esterni, siamo continuamente e inconsapevolmente in dialogo con la nostra più profonda parte interiore, ogni istante in ogni situazione. Una comunicazione incessante che crea la realtà e quindi crea noi stessi, raccontandoci in ogni dettaglio che però quasi sempre non siamo capaci di com-prendere.
Io sono l’altro soprattutto per tutte quelle cose che non mi piacciono, che non capisco, che non accetto, che non voglio. E non mi piacciono, non le capisco, non le accetto e non le voglio proprio perché in realtà quelle cose sono io. Sono situazioni, oggetti e circostanze che si realizzano per spiegarmi me stesso, per farmi vedere chi sono, per raccontarmi ciò che ho dentro e non riesco o non voglio vedere. Se tutto intorno a noi fosse bellissimo, piacevole, soddisfacente, quale spinta evolutiva riceveremmo ogni istante? In una tale situazione rimarremmo statici in contemplazione, senza dover fare e quindi istantaneamente cessando di essere. È infatti la situazione ideale della coscienza che si è integrata e riunificata, ma se ciò avviene dopo il percorso di acquisizione di consapevolezza ovvero dopo tutto il giro di incomprensione, dispiacere, disgusto e contrarietà verso ogni oggetto esterno, rappresenta il momento finale di ritorno all’essere; diversamente rappresenta il momento iniziale ovvero il non-momento, l’inizio di una sequenza che non si svilupperà mai perché senza l’intenzione di conoscere se stessi non inizia nulla, nemmeno l’universo.
Io sono l’altro per capire chi sono, ma per capire che l’altro mi fa capire chi sono bisogna essersi per lo meno ridestati. Chi si trova ancora relegato nella dimensione del fare passivo, in cui la vita lo vive come oggetto manovrato alla maniera di un burattino, difficilmente sa (nel senso di un sapere razionale, poiché il sentire emotivo e coscienziale è lontanissimo da questo stadio dell’esistenza) che la realtà oggettiva non esiste ma esiste solo l’insieme dei fenomeni oggettuali, che si manifestano intorno all’io solo e soltanto in quanto bisogno dell’io di conoscere se stesso e avvicinarsi alla consapevolezza.
È come se ognuno di noi fosse una radio che per emettere il segnale necessitasse di ascoltarsi. Ma in realtà il distaccamento del suono descrive tutto il percorso da fare: se tra il suono emesso e quello ascoltato non c’è alcuna differenza, allora ecco che l’acquisizione di consapevolezza può essere istantanea, come in entanglement; mentre maggiore sarà la differenza tra il suono emesso e quello ascoltato, maggiore sarà la lunghezza (in termini di spazio e di tempo) del percorso da attraversare per giungere all’acquisizione della consapevolezza di sé. E il problema a ben guardare sta proprio lì: nell’istante stesso in cui io sono nel senso che emetto me stesso, quella sostanza che io sono cessa di essere ciò che è per diventare altro, anzi l’altro, diverso da ciò che ho percepito un istante prima di estroiettarla, e quella differenza è tanto più lacerante quanto più evidente e ampia. Un altro esempio è quello della voce, che noi dal nostro interno sentiamo in un modo ma ad ascoltarla da una registrazione ci sembra (ed è) completamente diversa, e diversa è come la ascoltano gli altri; ma ciò significa istantaneamente che anche la voce degli altri è per noi cosa diversa da come è per ognuno di questi altri quando a loro volta sono un io.
In questo senso non esiste né bene né male. Gioire serve quanto soffrire. Sono entrambi mattoncini dell’evoluzione, e forse anche questo intendono la tradizione massonica e molte tradizioni esoteriche nella loro simbologia del bianco e nero, dell’alternanza tra gli opposti che, in certe espressioni come quella dell’androgino, vanno a confluire insieme. La fisica quantistica dice che l’universo esiste e non esiste alternativamente con una sequenza talmente veloce di acceso-spento da essere impercettibile al soggetto, come in un filmato con alta frequenza di fotogrammi che ci appare fluido e continuo e invece non lo è mai stato. Le singole parti diventano fenomeno attraverso il tempo ma soprattutto attraverso la continuazione del movimento, come simboleggiato anche a livello cultuale e mitologico in tutti i riferimenti alla ruota, al sole, all’incontro con la terra.
Io sono i miei problemi, o meglio le situazioni della mia vita che percepisco come problematiche, difficili, spiacevoli. Ma tutto sta nella scelta e quindi innanzitutto nella volontà, che presuppone la conoscenza e la comprensione di se stessi. Ognuno sceglie le situazioni che vive, anche le più assurde e inspiegabili, anche le più sgradevoli e disumane. In questo senso non esiste la colpa, che da un punto di vista primordiale non è mai esistita: la caduta non è una punizione ma una necessità dell’essere, come la separazione dall’uno nel molteplice finalizzata alla comprensione di sé. Ma in una società in cui l’individuo deve fare e lavorare, così da essere sempre più distratto e incapace di avere il tempo per conoscere se stesso, sembra incredibile, assurdo e offensivo affermare che tutto quello che ci capita, comprese malattie ed altre sofferenze, è una nostra scelta inconsapevole. Ma la verità è questa, e più tempo e spazio impiegheremo a negarla più dovremo soffrire nel corpo e nello spirito, come uno schiaffo in faccia per svegliare chi un attimo dopo torna a dormire per farsi risvegliare dallo schiaffo successivo, e poi ancora e ancora. La verità della coscienza non conosce razionalità. È un’assoluta perdita di tempo insistere nel pensare (rigorosamente col lobo sinistro del cervello) che ci è capitata quella cosa perché siamo sfortunati o per colpa di qualcun altro, è un gioco al massacro senza vincitore, è una presa in giro di se stessi e una terribile illusione che equivale ad una vita non vissuta, che è molto peggio della morte.
L’altro sono io, ed anche se abbiamo ragione a condannare certi comportamenti di altri, secondo legge o secondo morale, ciò che veramente conta è il perché, il significato. Chiediamoci sempre il perché di tutte le cose: in breve tempo e spazio le nostre sofferenze diminuiranno e il nostro benessere aumenterà.
L’acquisizione di consapevolezza riduce l’inconsapevolezza, come una stanza buia in cui piano piano comincia ad entrare una luce che si espande sempre di più, finché la stanza non sarà completamente illuminata. Bisogna combattere per rosicchiare spazio all’inconscio, rischiarando le nostre ombre per evitare che esse si proiettino fuori di noi, costruendo una realtà che non ci piace e non vogliamo nella misura in cui non abbiamo capito che quella realtà è solo lo specchio di noi stessi.
di Simone Aversano
- Questo è il quarto articolo di una serie ispirata al percorso “Conosci te stesso”, i primi articoli sono disponibili cliccando sui seguente link:
1 – “Siamo quello che non siamo“; 2 – “Il costo dell’esperienza“; 3 – “L’altruismo è il peggior egoismo“
- Per approfondire le tematiche dell’articolo, ecco la playlist alla terza stagione del format “Conosci te stesso”, appuntamento settimanale con il dr. Pierluigi Mulattieri andato in onda sul canale youtube MesbetTV: