“There’s someone in my head, but it’s not me”.
Lo cantavano i Pink Floyd nel brano Brain Damage all’interno dell’album The Dark Side of The Moon, che si conclude nella canzone Eclipse con una frase parlata, quasi una voce casuale fuori campo, che afferma: “There is no dark side of the moon, really. Matter of fact it’s all dark”.
I risvolti interpretativi di questa intera opera musicale sia sul piano psicanalitico che su quello alchimistico sono smisurati. Ma non ci soffermeremo su di essi in questa occasione; basti rimarcare come la band londinese in questa creazione e in molte altre abbia ampiamente dimostrato di saperla lunga su moltissime cose.
C’è qualcuno nella mia testa, ma non sono io.
Partiamo da qui. Partiamo dal luogo fisico, se possiamo considerarlo tale: la testa. Stiamo parlando di percezione sensoriale e di identificazione di qualcosa con il suo contenitore o con la sua presunta collocazione. Presumiamo, perché così ci sembra di percepire, che la mente sia collocata nella testa, e allora vale la sineddoche per cui la mente è la testa stessa. Hillman e molti altri psicologi e filosofi non sarebbero d’accordo con questa affermazione, e diremmo anche in maniera condivisibile. Ma il punto di vista in questo caso è fondamentale: il brano e l’album stesso parlano di pazzia, di disturbi psichici, di mente che non funziona bene. Io non sono pazzo è una certezza molto più forte di Io sono, perché siamo in tanti a non sapere chi siamo ma a poter ciononostante giurare con assoluta convinzione che pazzi non lo siamo di certo. Jung, nelle sue opere, argomentò in maniera affascinante come la psicologia non possa studiare se stessa, perché essa studia lo strumento che le servirebbe anche per studiarsi riflessivamente. Come un universo che non può conoscere se stesso dall’esterno ma solo dall’interno, perché per conoscersi dall’esterno ci sarebbe bisogno di un altro universo, e quindi di un terzo universo per studiare il secondo, e così via verso l’infinito. La fisica quantistica concorda dunque con la psicologia, forse anche perché l’universo intero non è che nella nostra testa. Ma se nessuno può stabilire di essere pazzo o meno, se la psicologia non può studiare se stessa, se l’universo non può conoscersi dall’esterno, allora dobbiamo accettare che nella comunicazione più comune la mente coincida con la testa. In fondo, se persiste incertezza anche ai massimi livelli del sapere circa cosa sia il cervello e dove alberghi la memoria, non possiamo certo pretendere che la tipologia d’uomo protagonista dell’album dei Pink Floyd eviti l’imprecisione di far coincidere il luogo con la sua funzione.
Partiamo dal luogo, dicevamo: la testa. Dentro la testa, dentro la mia testa, c’è qualcuno ma questo qualcuno non sono io. Su questa sola frase ci sarebbe da scrivere un trattato o da parlare per una conferenza di diverse ore. Tocca accontentarci dello spazio di poche righe, anche per evitare la presunzione di saper dire qualcosa di definitivo su una simile tematica.
In sostanza, stiamo parlando delle voci che sentiamo dentro la nostra testa. Nessuna allucinazione, nessuno stato alterato di coscienza, nessun viaggio astrale, nessuna roba strana, nessun parassitaggio, nessuna pazzia. Tutti noi, ognuno di noi, anche io, anche tu, sentiamo costantemente delle voci nella testa. Il primo passo è ammetterlo, divenendone consapevoli. Il resto del percorso è quasi una passeggiata, non in discesa e non senza fatica, ma il grosso del lavoro è stato fatto nell’istante in cui si è acquisita la consapevolezza di essere continuamente bersagliati da voci dentro la testa.
Ma queste voci, le voci che io ho nella testa, sono mie? Sono me? Sono Io?
Nell’esempio citato si parte dalla certezza, quasi oggettiva poiché acquisita esteriormente, che quel qualcuno che sta dentro la mia testa non sono io. E qui siamo perfettamente d’accordo con i Pink Floyd. Il secondo passo consapevole è infatti accettare l’idea che le voci che sento, di cui ho appena ammesso a me stesso l’esistenza, non sono la mia voce e di conseguenza non sono veramente io. O meglio, diventano Io nel momento in cui cominciano a far parte di me e ad agire dentro di me, quasi manovrando il mio comportamento, le mie scelte e prim’ancora il mio pensiero. Però quello lì non sono io.
E allora chi è? Di chi si tratta?
Il Dott. Pierluigi Mulattieri, nel percorso sul conoscere se stesso sviluppato in anni di lavoro su Mesbet TV, ne ha parlato diffusamente. Le voci dentro la mia testa hanno molteplici origini: prima di tutto e sicuramente i miei genitori, con differenze tra madre e padre anche in relazione all’essere figlio o figlia, poi eventualmente fratelli e sorelle, poi altri familiari e parenti, ma forse con un grado in meno di separazione ci sono le voci dei compagni di scuola, degli amici e dei colleghi di lavoro, e di tutte quelle persone alle quali crediamo di dovere qualcosa, per le quali facciamo ciò che facciamo, pensando che siamo tenuti a farlo per adempiere a qualche obbligo morale o sociale. Mi comporto in un certo modo ed evito di aprirmi a quell’esperienza, che magari per me potrebbe essere evolutiva, perché so che mia madre si dispiacerebbe o che arrecherei un fastidio o un’arrabbiatura a mio padre, non vado in un posto perché “poi la gente che pensa di me?”, non mi dedico ad una passione perché mi hanno sempre detto che nella vita bisogna lavorare e darsi da fare per guadagnarsela (i soldi, le vacanze, la pensione, la vita stessa), non cerco di conoscere me stesso perché non posso perdere tempo dietro a queste idiozie mentre devo lavorare, uscire con le persone che si aspettano la mia presenza, fare le commissioni che mi renderanno una persona puntuale ed affidabile, recitare il mio ruolo nella società senza ritardi né intoppi e confermare a me stesso che va tutto bene perché va tutto come sempre.
Le voci dentro la mia testa sono le proiezioni del mio inconscio che mi raccontano me stesso a specchio, comandandomi scelte e comportamenti facendomeli sembrare doverosi e inevitabili, così che inconsapevolmente io creo la mia immagine di me stesso attraverso l’esecuzione di tutte quelle azioni che ossequiano i comandi delle voci.
È anche una questione di valori: quello che faccio o non faccio è per rispettare i valori in cui credo io o quelli in cui crede qualcun altro, per esempio un genitore, che me li ha inculcati facendomi credere che si dovesse per forza fare in quel modo? Torniamo ad un tema già trattato, quello dell’altruismo come egoismo: che bene fa all’altro chi gli impedisce di scoprire il mondo, sulla scorta della presunzione di averlo già scoperto e compreso tutto? Il pericolo di qualcosa, di qualsiasi cosa, come limite invalicabile: “non farlo perché ti fai male!” ma chi l’ha detto che io non voglia proprio farmi male, o che comunque quello sia male anche per me? Non sarà forse, allora, che se faccio quella cosa stai male tu perché tu non vuoi farla e vedendola fare a me ne vivi l’esperienza riflessa? E che tu non vuoi fare quella cosa perché a te è successo di farti male facendola? Ah, ma allora è vero che io sono l’altro e che in fondo tutto ciò che ci accade sta dentro la nostra testa! Nel senso che esiste solo ciò che pensiamo esista perché lo percepiamo, sensorialmente o su altri piani.
Nell’istante esatto in cui ho accettato consapevolmente di avere delle voci dentro la testa e che queste voci non sono mie e non mi appartengono, l’epifania della schiavitù mentale è compiuta e non c’è nient’altro da svelare, a parte il resto dell’inconscio (perché è chiaro che quelle voci provengono di lì). E se io sono consapevole di essere schiavizzato da qualcosa posso fare solo due cose: liberarmi oppure rimanere schiavo. In entrambi i casi si tratta di una scelta validissima e rispettabile, perché ognuno in questa vita deve fare la propria esperienza e non quella degli altri (casomai, fare l’esperienza anche attraverso gli altri come proiezioni del proprio inconscio). Il problema nasce quando decido di rimanere schiavo ma continuo a raccontarmela come una mia scelta libera e felice. È lì che le voci, invece di spegnersi, acquisiscono forza.
Come si fa allora a spegnere le voci che ci muovono come burattini? La risposta sembrerà tanto semplice e banale da risultare forse offensiva: basta volerlo. Nell’istante in cui io voglio spegnere quelle voci, il loro volume sarà già più basso, e poi più basso, fino a trasformarsi in un flebile sussurro quasi impercettibile, per poi scomparire del tutto e perdersi nel silenzio. O magari nel chiasso di tutte le altre voci non ancora spente, ma siccome la coscienza è una sarà sufficiente spegnere una sola voce per averle già virtualmente spente tutte, sebbene possa volerci del tempo (che però non esiste) per conquistare l’agognato silenzio di libertà. Un silenzio in cui posso finalmente tornare a sentire la mia vera voce, quella della coscienza, offuscata per tutto questo tempo da un chiacchiericcio subdolo e tossico che mi ha trasformato in quello che non sono, cioè in quello che non voglio profondamente essere perché non ho ancora compreso cosa voglio davvero (e come avrei potuto comprenderlo, con tutte quelle voci sovrastanti!). In questo senso, l’esperienza delle voci è valsa comunque un premio: quello della liberazione dalle voci.
Per vincere praticamente questa auto-schiavitù mentale si possono tentare diversi approcci: rispondere alle singole voci che comandano determinati comportamenti prendendo il sopravvento e zittendole come in un dialogo, oppure operare alchemicamente nella materia per realizzare l’intento anche sul piano psichico, per esempio accendendo e poi spegnendo tutte le luci di casa una alla volta e associandole alle singole voci di comando che abbiamo individuato nella nostra esperienza, o fare lo stesso chiudendo dei cassetti o delle ante degli armadi. Ognuno può scegliere e trovare il proprio metodo. Con l’avvertenza che si tratterà anche di non frequentare più certe persone, non rispettare più certe abitudini, provocare dispiacere (egoistico) a qualcuno, deludere le aspettative di qualcun altro, rinunciare a tante cose per scoprire che viviamo la rinuncia come una liberazione e dunque stiamo meglio ora che quelle cose non le abbiamo o non le facciamo più. Roba forte, non leggera, non facile, ma appagante e gratificante come un’ascensione, perché di questo si tratta.
Nel percorso di acquisizione di consapevolezza di sé, quello che conta è spegnere le voci, passaggio fondamentale per giungere allo stato coscienziale di libertà e felicità che consente di godersi ogni cosa della vita su un piano non duale.
di Simone Aversano
- Questo è il nono articolo di una serie ispirata al percorso “Conosci te stesso”, i primi articoli sono disponibili cliccando sui seguenti link:
1 – “Siamo quello che non siamo“;
2 – “Il costo dell’esperienza“;
3 – “L’altruismo è il peggior egoismo“;
4 – “Io sono dentro lo specchio“;
5 – “Il problema dell’efficacia“;
6 – “Il silenzio è la risposta“;
7 – “La paura è solo ignoranza“;
8 – “Essere senza avere (bisogno di nulla)”.
- Per approfondire le tematiche dell’articolo, ecco la playlist alla terza stagione del format “Conosci te stesso”, appuntamento settimanale con il dr. Pierluigi Mulattieri andato in onda sul canale youtube MesbetTV: