(Prima parte: ORIGINE DELLA MASSONERIA IN ITALIA)
(Seconda parte: UNITÀ D’ITALIA E MASSONERIA)
Storia della Massoneria in Italia – Terza parte: La questione romana
Poc’anzi abbiamo visto la rivolta di Brescia e le sue Dieci Giornate. Queste furono precedute da un evento che, successivamente, si ripeté e fu essenziale per la creazione dell’Unità d’Italia. I papisti, i borbonici, i fedeli al governo asburgico, indicavano come “accolite” o “conventicole” le associazioni politiche dell’epoca. Queste erano di due tipi: le Democratiche e Repubblicane, i cui riferenti erano Mazzini, Garibaldi e quasi tutti quegli eroi che erano disposti a prendere in mano un fucile per difendere i propri ideali e cambiare il mondo. Le altre associazioni erano definite Liberali ed avevano come alfieri Cavour e Cattaneo. Questi ultimi erano più propensi al cambiamento lento ma costante, non effettuato con la “rivoluzione” in piazza, ma all’interno delle istituzioni. Queste due visioni si riflettevano all’interno della Massoneria e della Carboneria, sovente con litigi feroci se non con la rottura di vecchie amicizie. Ebbene, secondo le relazioni asburgiche che illustravano la situazione a Brescia prima delle dieci giornate, si faceva riferimento a “due distinte accolite di rivoluzionari, una filosabauda ed una mazziniana si riunirono e collaborarono per organizzare la rivoluzione”. Ebbene, Re Vittorio Emanuele II° riuscì a far convivere e far collaborare le due anime rivoluzionarie.
L’8 maggio del 1848 fu eletto deputato piemontese il Sindaco di Grinzane, si trattava di Camillo Benso Conte di Cavour. Nel 1850 il Presidente del Consiglio il massone Massimo d’Azeglio lo nominò Ministro dell’agricoltura e del commercio, erano divenuti amici frequentando la Massoneria torinese. Nel 1851, sempre Massimo d’Azeglio lo nominò anche Ministro delle Finanze. Conquistata la fiducia del Re massone Vittorio Emanuele II° e di suo fratello Ferdinando, alla caduta del governo d’Azzeglio, il Re affidò a Cavour la formazione del nuovo governo, che durò dal 1852 al 1859, con due governi consecutivi. Fra i suoi ministri vi era almeno un altro massone, Luigi Cibrario all’Istruzione.
Erano scomparse la Repubblica Romana, quella di San Marco, il Regno di Sicilia e tutte le altre repubbliche democratiche. Papa Pio IX era saldamente a capo degli Stati Pontifici, i Borbone a Napoli e l’Austria, direttamente o tramite parenti degli Asburgo, tutto governavano il nord Italia a parte il Regno di Sardegna.
Cavour, come correttamente indicato dalla retorica dell’epoca, fu un tessitore. Comprese che il Piemonte da solo non poteva sconfiggere l’Austria, che l’ardore popolare non era sufficiente a formare reggimenti validi sul campo di battaglia, l’indifferenza se non la contrarietà degli strati più popolari della cittadinanza al sogno dell’Italia Unita. L’indifferenza era dettata dall’assenza di scolarizzazione, quindi il mito della Roma Repubblicana con le sue virtù osannate dalla rivoluzione francese, non aveva molta presa; inoltre, per quella parte della popolazione molto religiosa, l’influenza del parroco era totale, e nella gran parte dei casi si trattava di “codini”, così erano indicati i fautori dell’antico regime (in riferimento alle parrucche con il codino), ove la Chiesa aveva il suo potere temporale e pretendeva di guidare i monarchi europei; inoltre per mantenere questo potere assoluto, occorreva che il popolo non fosse istruito, ecco l’importanza del ministro Cibrario all’istruzione. Questi diede grande impulso all’edificazione di nuove scuole, in pochi anni, nel Regno di Sardegna, tutti i paesi e tutte le frazioni furono dotate di una scuola ed almeno di un maestro. Furono resi obbligatori 3 anni di frequenza, affinché il futuro cittadino imparasse almeno a leggere. Si ha una parodia di questa direttiva nelle Avventure di Pinocchio, ove il massone Collodi fa dire al burattino: “il primo giorno imparerò a leggere, il secondo a scrivere ed il terzo a far di conto”, che era il minimo per poter avere una vita non dipendente dagli altri.
Nel frattempo occorreva trovare un alleato che aiutasse il Piemonte a sconfiggere l’Austria. La Russia era interessata solamente ai “popoli fratelli” (ortodossi) dei Balcani, poi era tradizionalmente amica dell’Austria. La Germania era divisa in stati e staterelli, l’unico di una certa valenza era la Prussia, ma impegnata nel suo piano di unificazione tedesca. La Spagna aveva la casa regnante strettamente imparentata con i Borbone di Napoli, quindi era anch’essa da escludere. Rimaneva l’Inghilterra, la cui potentissima Massoneria aveva aiutato tutte le “rivoluzioni democratiche” dell’America latina, ed in Francia, nel 1852, era stato eletto Imperatore Luigi Napoleone, con il titolo di Napoleone III°, questi era un massone e quindi alleato naturale. La fazione Repubblicana, guidata da Garibaldi e da Mazzini volgevano lo sguardo a Londra, memori della distruzione della Repubblica Romana da parte di Luigi Napoleone quando era Presidente Francese, mentre Cavour volgeva il suo sguardo a Parigi.
Presi i contatti, tramite i ministri massoni francesi ed inglesi, si venne a sapere che Londra era favorevole ad un Italia unita in quanto sarebbe stata una spina nel fianco di Francia ed Austria, però intendevano salvaguardare i loro interessi militari, ossia una flotta commerciale non potente per non avere concorrenza nel Mediterraneo, le miniere di zolfo siciliane per la produzione dell’indispensabile polvere da sparo e le pietre focaie del bresciano per i fucili indispensabili per l’esercito coloniale. Al contrario Napoleone III° aveva un suo progetto per la penisola italiana: creare tre stati, uno al nord sotto i Savoia, da utilizzare come cuscinetto con l’Austria, uno al centro, formalmente anche sotto il Papa, ma sotto controllo francese ed il Regno delle Due Sicilie la cui corona era da assegnare ai discenti di Murat, che ne fu Re dal 1808 al 1815. Il problema non era facilmente risolvibile, gli inglesi avrebbero fatto avere soldi e armi, oltre all’appoggio navale, ma occorrevano truppe, che come si era visto nella guerra del 1848/49, quelle italiane non erano sufficienti. I francesi avevano un grande esercito, ma non volevano l’unità d’Italia. Quindi Cavour e Vittorio Emanuele, con i loro consiglieri, elaborarono un ardito piano cercando di prendere il meglio da entrambi.
Per dimostrare agli inglesi la capacità dei piemontesi di combattere, il Regno di Sardegna partecipò alla Guerra di Crimea del 1853/56, ove Inghilterra e Francia aiutarono l’Impero Ottomano a combattere contro la Russia per il controllo della Crimea, per impedire alla Russia di avere una grande flotta e di conseguenza non divenire un concorrente nel Mediterraneo. Il Generale Alfonso LaMarmora fu inviato in Crimea con un corpo di spedizione di oltre 18.000 bersaglieri, lasciando sul campo, fra morti in combattimento e per malattia, circa 1.300 uomini. La guerra terminò a causa del diffondersi del colera. Tutti gli eserciti coinvolti ebbero più vittime per il morbo che per il piombo nemico. Alla pace di Parigi i rappresentanti piemontesi poterono sedersi al tavolo con tre grandi potenze ed approfondirono i contatti con Napoleone III. Questi fu chiaro: lui sarebbe intervenuto nella guerra contro l’Austria, il Piemonte avrebbe ricevuto il Lombardo-Veneto ed alla Francia sarebbero andate Nizzardo e Savoia, oltre alla rinuncia alle pretese sulla Corsica da parte piemontese. Vi era la questione di Parma e Modena, ma Napoleone III° le voleva lasciare fuori dalla questione.
Mentre la parte Liberale della Massoneria piemontese, Cavour in testa, discutevano con Parigi, la fazione Democratica, in forma assolutamente silenziosa, prendeva accordi con Londra. Il Piemonte iniziò ad armarsi e le spie asburgiche informarono Vienna. Nel frattempo la Massoneria torinese prendeva contatti con quella lombarda, parmense, modenese, fiorentina e palermitana per organizzare l’immediato dopoguerra. Il piano, a vantaggio dell’Italia ed a danno di Napoleone III° si stava concretizzando, al punto che l’Imperatore Francese era solamente un’utile pedina della grande partita a scacchi giocata nell’ombra.
Nel 1859 tutto era pronto e l’alleanza con la Francia fu firmata nel gennaio del 1859. Si trattava di un’alleanza difensiva, quindi per far intervenire i francesi, occorreva farsi dichiarare guerra dall’Austria. L’impero asburgico, saputo dell’alleanza aumentò la presenza di truppe in Lombardia. Il 10 gennaio del 1859 Vittorio Emanuele II° si presentò dinnanzi al parlamento subalpino e pronunciò il famoso discorso sul “grido di dolore che si alza da tante parti d’Italia”.
Nel frattempo la Società Nazionale, fondata nel 1857, faceva affluire in Piemonte volontari da tutta Italia. Progettata da Cavour, era guidata da Daniele Manin, già Presidente della Repubblica di San Marco, esule in Piemonte, e dal Massone siciliano Giuseppe La Farina. Nelle sue fila militavano molti Repubblicani del Partito d’Azione di Mazzini. Presidente fu nominato il Marchese milanese Giorgio Pallavicino Trivulzio ed il Massone Giuseppe Garibaldi Vicepresidente. Garibaldi che era stato iniziato nella Massoneria di Montevideo, in Uruguay, ed ora frequentava la Massoneria torinese.
L’esercito piemontese richiamò alle armi i congedati delle ultime cinque classi. L’Austria si allarmò e la Russia provò ad organizzare una conferenza di pace. Nel frattempo l’ex Presidente del Consiglio, il massone Massimo d’Azeglio, era a Londra per prendere accordi. Il 19 aprile l’Austria intimò al Piemonte di disarmare entro tre giorni. Il 23 aprile l’ultimatum fu consegnato a Cavour dai diplomatici austriaci. Le truppe francesi, intanto, affluivano in Piemonte.
Il 27 aprile l’esercito austriaco attraversò il Ticino invadendo il Piemonte marciando su Pavia. Il grosso dell’esercito austriaco entrò in Piemonte il 30 e marciò su Vercelli in direzione di Torino. Intanto l’esercito francese attraversava il Moncenisio ed a Susa veniva caricato su treni che lo trasportavano ad Alessandria. Altri sbarcavano a Genova, giungendo da Marsiglia. In nave giunse anche Napoleone III° e si pose al comando della sua armata. Il primo scontro avvenne a Montebello (oggi Montebello della Battaglia), non lontano da Pavia, dove i francesi sconfissero gli Austriaci. Il 27 aprile l’arciduca Leopoldo di Toscana fuggiva ed il governo provvisorio si unì all’alleanza franco-piemontese. Organizzato l’esercito, gli alleati avanzarono, scontrandosi con successo a Palestro. Superata Novara si scontrarono con gli austriaci a Magenta, sconfiggendoli. L’8 giugno i franco-piemontesi giunsero a Melegnano, ormai alle porte di Milano, mentre gli austriaci si ritiravano verso il quadrilatero.
Si diffuse la falsa notizia che un grande esercito francese stava per sbarcare in Veneto e gli austriaci, per non essere chiusi in una sacca, proseguirono la ritirata.
Nel frattempo i volontari organizzati nei Cacciatori delle Alpi, sotto la guida di Garibaldi, occuparono Varese, sconfiggendo gli austriaci a San Fermo ed occuparono Como, quindi Bergamo e Brescia. Con i piemontesi vinsero a Treponti e liberarono la Valtellina.
Una flotta franco-piemontese sbarcò 3.000 fanti nel Quarnaro (Istria), accolti festosamente dagli abitanti. Riorganizzatisi e saputo che non vi era un grande sbarco, gli austriaci ritornarono verso Milano dispiegandosi fra San Martino e Solferino. I piemontesi ed i francesi si predisposero alla battaglia. Vi erano circa 125.000 uomini per parte. Il 24 giugno vi fu lo scontro, si trattò della più aspra battaglia del risorgimento. Non è qui il luogo per descriverla, ci basta sapere che a sera i franco-piemontesi avevano vinto. Gli austriaci si ritirarono oltre il Mincio ed una notizia giunse a Napoleone III°, i prussiani stavano ammassando truppe lungo il Reno, approfittando della sua assenza ed impegno in valle Padana. Doveva concludere subito la pace e rientrare in Francia. Due giorni dopo, a Villafranca di Verona, ci si accordò per un armistizio.
Alla battaglia fu presente il massone svizzero Jean Henri Dunant, questi, sconvolto dallo stato di abbandono dei feriti, nel 1864, assieme al generale svizzero e massone Guillaume Henri Dufour ed ai medici Louis Appia e Theodore Maunoir, fondarono la Croce Rossa, che con il tempo divenne l’organizzazione internazionale che tutti conoscono.
Occorre precisare che la guerra, in Europa è nota come guerra franco-austriaca, solo in Italia è nota come Seconda Guerra d’Indipendenza. In effetti Napoleone III° e l’Imperatore d’Austria si accordarono e poi Napoleone III° mise Vittorio Emanuele dinnanzi al fatto compiuto. Secondo gli accordi di pace, l’Austria cedeva alla Francia la Lombardia senza Mantova, la Francia la consegnava al Piemonte ottenendo in cambio Nizzardo e Savoia. Vittorio Emanuele II° era ben conscio che non poteva continuare la guerra da solo, per non fare la fine di suo padre Carlo Alberto e dovette firmare.
Napoleone III° ritornò velocemente in Francia e Cavour fu informato degli accordi e si infuriò al punto da dare le dimissioni. Anche Garibaldi si infuriò e la storiografia ufficiale ci narra che fu perché il Piemonte aveva ceduto il Nizzardo, sua terra natale, alla Francia. Si tratta di una sciocchezza, in quanto gli accordi erano ben noti prima della guerra. Il Re nominò Primo Ministro LaMarmora e firmò gli accordi di pace di Zurigo. Ma la situazione, ben organizzata prima della guerra, procedeva a favore del Piemonte. I Duchi di Parma e Modena erano fuggiti e vi era un Governo Provvisorio, così come nel Granducato di Toscana. Anche il Legato Pontificio della Romagna era stato cacciato ed anche in Romagna vi era un Governo Provvisorio.
Il Governo Provvisorio di Parma e Piacenza non perse tempo ed indisse un plebiscito per l’annessione al Regno di Sardegna. Occorre precisare che per poter partecipare al voto, all’epoca, occorreva, oltre che essere maggiorenni (21 anni) e uomini, saper leggere e scrivere ed avere un “censo”, ossia pagare tasse sopra un certo livello. Pertanto solo una piccola parte della popolazione votava. Ad esempio in Piemonte alle elezioni parlamentari poteva votare solamente l’1,5% dei cittadini. Cosicché il plebiscito, del 14 agosto, nel Ducato di Parma si risolvette con un 99% di voti favorevoli. A Modena, il medesimo giorno si votò per una Assemblea, ossia un parlamento, il quale poi decretò l’annessione al Regno di Sardegna.
LaMarmora si impaurì della situazione, temeva che l’Austria avrebbe ripreso le ostilità e non volendo ratificare l’annessione volontaria di Parma, offrì le dimissioni. Vittorio Emanuele II° richiamò Cavour al Governo e questi gestì la situazione. La Francia e la Prussia avevano evitato la guerra, quindi se l’Austria avesse attaccato il Piemonte, la Francia sarebbe dovuta intervenire. Preso atto del silenzio austriaco, Cavour diede il via libera ai plebisciti, per il marzo 1860, facendo ripetere quello di Parma e Piacenza. Tutti i plebisciti ebbero esito favorevole, con pochissimi voti contrari o nulli. Cosicché Parma e Piacenza, Modena e Reggio e l’Intera Romagna chiedevano l’annessione al Regno di Sardegna. Nei medesimi giorni si votò anche nel Granducato di Toscana e l’annessione al Piemonte ottenne oltre il 98% dei consensi. Napoleone III° protestò vivacemente, in quanto lui aveva promesso all’Austria l’indipendenza dei vari ducati, ma si fece sentire la voce dell’Inghilterra, che approvò in parlamento un documento che definiva le parole dell’Imperatore francese “Sovversive dell’indipendenza italiana”.
Nelle Marche e nell’Umbria scoppiarono moti volti a chiedere anche per quelle terre i plebisciti, in tutta risposta il Cardinale Giacomo Antonelli, Segretario di Stato Vaticano, su ordine di Papa Pio IX, inviò truppe di mercenari svizzeri a sedare le rivolte con le armi. La repressione culminò il 20 giugno 1859 con la strage di Perugia. Ovunque impiccagione dei patrioti.

Cavour era soddisfatto, Napoleone III° era stato usato per raggiungere il primo scopo, l’appoggio inglese era dimostrato e quindi si poteva partire per la seconda parte del piano. L’aggregazione, per non dire annessione, del Regno delle Due Sicilie.
A Genova era giunta, già nel 1857, una delegazione di massoni e patrioti siciliani, fra cui il massone Rosolino Pilo, gli incontri preliminari furono con il massone Carlo Pisacane. Quindi con Garibaldi ed altri rappresentanti repubblicani, fra cui Mazzini, che poi tornò in Inghilterra. Quando tutto fu pronto, grazie al potente appoggio inglese, come vedremo, venne informata la Massoneria di Palermo, la quale, tramite il Massone Giuseppe Crispi rifugiato a Genova, diede il via a moti guidati dai carbonari. Il 4 aprile vi fu uno scontro a fuoco presso il convento della Gancia a Palermo. La repressione borbonica portò alla fucilazione di 13 rivoltosi. Invece di placarsi, la rivolta si estese, prima a tutta Palermo e poi anche nelle campagne. Rosolino Pilo, giunto in Sicilia da Malta, tramite una nave inglese, organizzò un gruppo di un migliaio di rivoltosi che percorse le campagne avvisando che “verrà Garibaldi”. Gli inglesi tornarono a Malta ed informarono il Massone Nicola Fabrizi, modenese, fondatore della Legione Italica; questi immediatamente mandò un telegramma cifrato a Garibaldi, informandolo che la rivolta c’era ma non nelle proporzioni sperate. Garibaldi tentennava, i mazziniani lo accusarono di aver paura, il Massone Nino Bixio si offrì di sostituirlo alla guida della spedizione. Ma i responsabili del “fondo per il milione di fucili”, che avevano raccolto 200.000 lire in Italia, fra logge massoniche, carbonari, repubblicani e patrioti ed il Comune di Milano, non intendevano rimandare la spedizione. Giunse un carico di rivoltelle da New York inviato direttamente dal massone Samuel Colt, la cosa rianimò Garibaldi, ma a convincerlo ci pensò lo scaltro Crispi, che con un colpo di teatro, giunse di corsa a casa dell’Eroe dei Due Mondi agitando un foglietto gridando che nei giorni precedenti si era sbagliato a decifrare il telegramma, che invece, correttamente, affermava che la Sicilia era in rivolta ed aspettava Garibaldi. Naturalmente non era vero, ma bastò a convincere il Generale a prendere il cappello ed a dirigersi a Quarto per imbarcarsi.
Cavour fece finta di non sapere nulla di quanto stesse succedendo, doveva tenere fuori dalla questione il Governo e Casa Savoia, in quanto, se le cose fossero andate male, si sarebbe trattato di una vicenda dei mazziniani, se fosse andata bene, merito e gloria all’Italia e presentazione del fatto avvenuto alla Francia, ben sapendo che alle spalle del Piemonte vi era l’Inghilterra. Se poi Garibaldi non avesse voluto partire, vi era già pronto Ignazio Ribotti, un ex ufficiale piemontese, meno testa calda, ma con il problema di non essere considerato un eroe dal popolo. D’altronde il Governo piemontese aveva stanziato 7.905.607 lire per la spedizione e non la si poteva certo annullare. Denari che erano confluiti nelle casse dell’organizzazione assieme a molte altre donazioni non ultime oltre 200.000 lire raccolte fra massoni e carbonari del Regno delle Due Sicilie.
A Quarto, presso Genova, erano radunati i cosiddetti 1.000, in realtà pochi di più, 1.162, in massima parte reclutati fra gli ex volontari dei Cacciatori delle Alpi, la provincia maggiormente rappresentata era quella di Bergamo, ma vi erano volontari che giungevano da ogni parte d’Italia e qualche straniero. Erano già vestiti con le camicie rosse, pare giunte da Montevideo in Uruguay, in realtà, molto probabilmente dall’Inghilterra, in quanto fu proprio questa a mandare a suo tempo le “camice rosse repubblicane” ai rivoluzionari latino americani. La notte fra il 5 ed il 6 maggio, Nino Bixio guidò un gruppo di garibaldini e marinai che finsero di rubare le navi Piemonte e Lombardo, quindi si portarono alla foce del Bisagno e vi caricarono la truppa e Garibaldi vi salì al largo. Le navi erano della Compagnia Rubattino, società di navigazione legata a doppio filo con il Governo Piemontese, ed infatti la ritroveremo nelle campagne coloniali di Eritrea, Somalia ed Etiopia. Le navi partirono alla volta della Toscana, ove vennero caricati i fucili, dei nuovissimi Enfield inglesi. Il Governo piemontese, per salvarsi la faccia in caso di fallita missione, aveva finto un sequestro di vecchi fucili a Milano, su ordine del Governatore, il massone Massimo d’Azeglio.
Giunti in Toscana trovarono centinaia di uomini che volevano imbarcarsi per partecipare alla missione, ma non vi era posto, solamente alcuni riuscirono a nascondersi nella stiva e partire ugualmente. Durante il tragitto verso la Sicilia, sulla loro scia si disposero altre navi che non battevano bandiera. Si trattava di “volontari” inglesi, scozzesi, gallesi ed irlandesi. Molti militari britannici che avevano lasciato appositamente il servizio, altri vennero arruolati tramite un annuncio sui giornali inglesi, che recitava:
<<Escursione in Sicilia e a Napoli. Tutte le persone interessate (particolarmente i Membri del Corpo dei volontari fucilieri) desiderosi di visitare l’Italia del Sud e di aiutare con la loro presenza ed influenza la “Causa di Garibaldi e l’Italia”, possono sapere come procedere per fare domanda alla “Commissione Garibaldi” presso gli uffici al No. 8 di Salisbury Street, London.>>
Si tratta di una delle pagine più oscure della storia ufficiale d’Italia, in quanto si vuole lasciar brillare la stella di Garibaldi. Già l’anno precedente, il 1859, in Inghilterra era stata aperta una sottoscrizione denominata “Garibaldi Found” gestito dalla società Garibaldi Special Fund Committee appositamente fondata, a cui molti emigrati italiani parteciparono. Quindi il Maggiore Styles organizzò la Legione Britannica, la cui entità rimane sconosciuta o confusa. Le cifre vanno da un minimo di 800 a 2500 uomini. Il fondo raccolse in tutto 3.000 sterline circa, le rimanenti 14.000 che occorrevano le mise il Governo Piemontese. Queste truppe furono definite dal giornale Newcastle Daily Chronicle come: “Metà entusiasti e metà fannulloni ed ubriaconi”, dalla città di Glasgow (Scozia) giunsero dei Roughs, ossia teppisti, che gli inglesi furono ben felici di mandare in guerra. La Legione Britannica fu posta sotto la guida di John Peard ed attese la partenza a Cagliari, quindi seguì con le sue navi quelle della Rubattino. Molti altri furono arruolati in ritardo e giunsero nel Mediterraneo quando la campagna era verso il termine, sbarcarono a Napoli, ormai conquistata da Garibaldi, il 15 ottobre del 1860 e combatterono a Capua il 19 ottobre. Napoli ove la Contessa Maria Martini della Torre promise di far erigere loro una statua in ricordo, ma la prosopopea risorgimentale lo impedì.
Ma torniamo al viaggio verso la Sicilia. Le navi, giunte in vista di Marsala, luogo previsto per lo sbarco, attesero le manovre di navi militari inglesi, al comando del Contrammiraglio George Rodney Mundy, che bloccarono il porto e favorirono lo sbarco, mentre altre navi inglesi veleggiavano al largo di Palermo per intercettare l’eventuale arrivo della flotta napoletana. La notte fra l’8 ed il 9 maggio, partirono da Genova altre due navi, la Utile e la Charles and Jane procedendo per la Sicilia con un altro migliaio di garibaldini. La flotta napoletana le intercettò e le obbligò a recarsi a Gaeta, ove gli uomini dovevano essere arrestati, ma giunse la nave inglese Amazon ed il comandante affermò che si trattava di mercenari al soldo inglese e di rilasciarli subito, cosa che avvenne, cosicché la Amazon li scortò a Marsala.
L’11 maggio Garibaldi ed i primi garibaldini sbarcarono a Marsala, ove le navi inglesi Argus e Intrepid erano presenti nel porto per difendere gli interessi inglesi rappresentati dai magazzini “Woodhouse e Ingham”, ma la parte più curiosa è che il comando borbonico, proprio il giorno prima aveva distolto le truppe del Generale Letizia, inviandole a Palermo per il sospetto di una possibile rivolta. Garibaldi trovò ad attenderlo 200 volontari siciliani ed i “Carabinieri Genovesi” comandati dal Colonnello Griziotti, che aveva già sbarcato l’artiglieria da consegnare ai garibaldini.
Le truppe si spostarono all’interno dell’isola, raccogliendosi a Salemi. Qui, Garibaldi assunse il titolo di Dittatore della Sicilia, nel senso latino di comandante in tempo di guerra, a nome di Re Vittorio Emanuele II, e nominò Giuseppe Crispi Primo Segretario di Stato della Sicilia. Sempre a Salemi giunse Fra Pantaleo, un frate, sacerdote e massone, che si unì alla spedizione combattendo con il saio.
A questo punto iniziò la campagna di Sicilia con la battaglia di Calatafimi; alla notizia della sconfitta il Re di Napoli, Franceso II, andò in panico, chiese al Generale Carlo Filangieri di rientrare in servizio, questi era stato al servizio di Murat e, quindi di Napoleone, ma il principe Filangeri rifiutò. Allora Francesco II, non sapendo più cosa fare, portò la corona e lo scettro in chiesa e li depose davanti alle reliquie di San Gennaro, chiedendo il miracolo come accettazione di divenire, il santo, Re di Napoli, ma il miracolo non avvenne e Franceso II° si riprese corona e scettro. Provò a chiedere aiuto a Napoleone III°, ma questi, benché infuriato, non intendeva scendere in guerra contro l’Inghilterra. Ormai solo, Francesco II° fu consigliato dalla moglie di concedere la costituzione. Il Re di Napoli si disperava del fatto che la madre era figlia di Vittorio Emanuele I di Savoia e lui si considerava cugino, benché di terzo grado, con il Re Vittorio Emanuele II.
Nel frattempo vi fu l’insurrezione di Palermo e la conquista da parte di Garibaldi. A Palermo venne installato il Governo Dittatoriale. Cavour vi inviò il massone Agostino Depretis per controllare l’operato di Garibaldi, che fu nominato da quest’ultimo prodittatore, ossia il suo sostituto. Il 14 settembre fu sostituito dal massone Antonio Mordini.
Il 2 e 3 giugno sbarcarono a Catania, in mano agli insorti, due navi provenienti da Genova, con “volontari” e 1.000 fucili britannici provenienti da Malta. A Marsala, l’11 giugno, giunsero altri 1.000 fucili e molte munizioni, provenienti da Genova e furono consegnate al massone garibaldino e scrittore Giuseppe Cesare Abba. Il 18 giugno sbarcarono a Castellammare del Golfo (Trapani) altri 2.500 “volontari” con 8.000 fucili. Giungevano da Genova ed erano comandati dal generale massone Giacomo Medici del Vascello. Poi raggiunti dai 1.000 che erano stati intercettati e poi liberati dagli inglesi. Sia Medici che gli ufficiali vestivano l’uniforme piemontese, ma ormai pareva che più nessuno si stupisse. Con Medici giunse anche il giornalista Massone Giuseppe Mario, con il compito di documentare l’impresa. Il 1° giugno sbarcò a Pozzallo (Ragusa) il massone Nicola Fabrizi con i suoi volontari della Legione Italica, ed iniziò a raccogliere volontari e quindi a marciare su Catania. Il 5 ed il 7 giugno sbarcarono a Palermo altri 2.000 volontari comandati da Enrico Cosenz, già ufficiale del Regno di Napoli, poi difensore della Repubblica di San Marco e quindi entrato nell’esercito piemontese. Il 22 luglio giunsero due navi con 1.535 volontari, in maggioranza lombardi, sotto la guida del maggiore Gaetano Secchi. Altre navi di armi e munizioni continuarono a giungere sino a fine agosto, quando Cavour interruppe le spedizioni in quanto stavano organizzando l’esercito che doveva scendere la penisola, sotto la guida del Re in persona.
Nel frattempo, il 3 giugno, le truppe borboniche, dopo aspri scontri, abbandonarono Catania ritirandosi verso Messina, nel contempo le truppe garibaldine avanzavano su Palermo. Quindi la vittoria garibaldina nella battaglia di Milazzo e lo sbarco a Palermo di ulteriori 900 volontari, giunti con la nave britannica City of Aberdeen. Il 27 luglio i garibaldini entrarono in Messina mentre i borbonici la stavano abbandonando, ritirandosi in continente. Il giorno successivo, il 28 luglio, le piazzeforti di Siracusa ed Augusta si arresero alle truppe garibaldine.
Mentre i garibaldini organizzavano lo sbarco in Calabria, il 13 agosto, Luigi di Borbone, comandante in capo della Marina del Regno delle Due Sicilie e zio di Re Francesco II, presso il Consiglio di Stato propose di riunire la flotta e di attaccare il porto di Messina ove era riunita la flotta garibaldina, al fine di distruggerla. Questa proposta fu respinta dagli ammiragli e dai generali borbonici, vi furono violente discussioni al punto che Luigi di Borbone fu accusato di “ambizioni personali” e gli ufficiali chiesero al Re di inviare lo zio in esilio, cosa che peraltro avvenne pochi giorni dopo. La questione, apparentemente curiosa, è spiegabile solamente a posteriori, quando dopo la guerra questi ammiragli e generali passarono sotto le bandiere del neonato esercito italiano. Si è tanto discusso su un alto livello di corruzione degli alti comandi dell’esercito borbonico; è possibile, ma è anche solo ipotizzabile un sentimento opportunista dettato dalla convinzione che la guerra sarebbe stata perduta e quindi si ricercava la benevolenza del futuro Re d’Italia. Fra questi alti ufficiali vi erano massoni che fecero il gioco dell’Unità d’Italia? Non lo sappiamo, ma non lo possiamo escludere, anche solo prendendo ad esempio l’incredibile avvenimento citato in precedenza della cattura di due navi cariche di garibaldini e liberate sulla parola di un ufficiale inglese. La distruzione della flotta garibaldina avrebbe fermato l’invasione? No, l’avrebbe solamente ritardata; i solerti inglesi avrebbero fornito altre navi, ma non è concepibile in guerra rinunciare ad una azione per fermare il nemico.
Il Regno delle Due Sicilie vacillava ed il massone Liborio Romano, capo della polizia del regno, fu fra i consiglieri del Re a convincerlo a concedere la Costituzione, e venne ripristinata quella della Repubblica del 1848, i dissidenti (Repubblicani, liberali) non vennero più perseguitati, addirittura il Regno delle Due Sicilie adottò il tricolore con lo stemma dei Borbone. A tutte queste notizie, il Conte Carlo Pellion di Persano, alto ufficiale piemontese presente in Sicilia su incarico del governo sabaudo, scrisse a Cavour informandolo che Liborio Romano stava favorendo la spedizione più di quanto ci si potesse aspettare. Cavour rispose di far ritardare lo sbarco in Calabria, in quanto lui stava lavorando per rovesciare Re Franceso II° tramite un colpo di stato.
Gli agenti di Cavour a Napoli avevano preso contatto con i possibili golpisti, fra i quali Finzi, il massone Mariano D’Ayala e Alessandro Nunziante che era amico personale di Francesco II. Nella speranza di una sommossa popolare che avrebbe fatto abdicare il Re, Cavour ordinò a Persano di inviare truppe di supporto. Incredibilmente a Napoli sbarcò una formazione di Bersaglieri, che rimasero in disparte nell’attesa degli eventi. Ma non si giunse che ad organizzare delle manifestazioni, in quanto i mazziniani attendevano Garibaldi, come la popolazione. Preso atto della situazione, Cavour ritornò al piano originale ed ordinò lo sbarco in Calabria, favorito dalla flotta inglese e certamente non ostacolato da quella napoletana, che rimaneva tranquillamente a riposo nel porto partenopeo. Quindi Cavour mandò l’ordine all’ambasciatore piemontese a Napoli, Salvatore Pes di Villamarina, di favorire le azioni di Garibaldi, inoltre mandò un carico di Armi a Salerno da distribuire ai volontari che venissero raccolti nella Guardia Nazionale.
I Borbone avevano schierato a difesa della Calabria solamente 15.000 militari. Nel frattempo Garibaldi aveva mandato il massone Antonino Plutino ad organizzare rivolte in Calabria e Nicolò Mignona in Lucania (oggi Basilicata). Il giorno dello sbarco, 21 agosto, le navi borboniche si allontanarono dal porto senza combattere. Le scarse truppe in città opposero resistenza, ma il Generale Fileno Brigantini non inviò che scarsi aiuti, cosicché le truppe borboniche dovettero arrendersi. Nei giorni successivi il Generale Brigantini fu ucciso dai suoi uomini, fedeli ai Borbone, per tradimento. I comandanti militari borbonici in Calabria scrissero una delle più brutte pagine della storia militare italiana. Si ritiravano senza motivo, si arrendevano senza combattere, pur in superiorità numerica non attaccavano. Il Generale Ghio si arrese con i suoi 10.000 militari senza sparare un colpo, e forse non curiosamente, dopo la guerra fu inserito nell’esercito italiano.
Ormai il tradimento del sempre più solo Re Francesco II° era quotidiano. Il 25 agosto sui giornali partenopei fu pubblicata una lettera dello zio di Francesco II, Leopoldo di Borbone, che consigliava il nipote di abdicare e di andarsene. Quindi Leopoldo il 31 si recò al porto di Napoli ove era giunta la nave sabauda Costituzione, si imbarcò e la nave partì alla volta di Genova, abbandonando il nipote al suo destino e mettendosi al riparo sotto le ali del “nemico”. Nel frattempo le truppe garibaldine risalivano la penisola occupando la Calabria e la Lucania.
Nel mese di agosto Re Vittorio Emanuele dettò al Conte Tecchi una lettera da far recapitare a Garibaldi, ove il Re si raccomandava di: valutare se procedere alla liberazione di Umbria e Marche, giunto a Napoli Garibaldi dovrà dichiarare l’unione del Regno all’Italia, impedire disordini e soprattutto tenere compatto l’esercito napoletano, in quanto Vittorio Emanuele II° era certo che a breve l’Austria avrebbe dichiarato guerra e, quindi, servivano le truppe napoletane. Ciò significa una cosa sola: Vittorio Emanuele sapeva che gli ufficiali borbonici erano già stati contattati ed erano pronti ad aderire all’esercito del Regno d’Italia. Inoltre il Re si raccomandava di favorire la fuga di Re Francesco II° e di difenderlo nel caso fosse catturato da facinorosi.
Il 20 agosto il Prefetto di Polizia Liborio Romano consigliò Re Francesco II° di abbandonare “temporaneamente” Napoli, per evitare la guerra civile. Pochi giorni dopo un altro zio Leopoldo di Borbone consigliò anch’esso al Re di andarsene da Napoli. Ma Francesco II° intendeva resistere e convocò il Direttore delle Finanze Carlo de Cesare di attingere alle riserve del tesoro per finanziare una campagna contro Garibaldi. De Cesare si rifiutò categoricamente e minacciò di dimettersi. Si tratta di un rifiuto inconcepibile ed odora di tradimento. Il 2 settembre il Ministro della Guerra, Pianell, si dimise. Francesco II° gli chiese di rimanere, ma Pianell rifiutò e nei giorni seguenti altri ministri si dimisero. Franceso II°, disperato, chiese consiglio all’anziano Generale Raffaele Cassascosa, se ritirarsi a nord o resistere a Napoli. Il generale disse: “Se vostra maestà mette i piedi fuori di Napoli, non vi tornerà più”.
In Campania vi erano due enclave degli Stati della Chiesa: Benevento e Pontecorvo. In queste città scoppiarono rivolte con la richiesta di annessione all’Italia. Il Nunzio Papale a Napoli si rivolse a Liborio Romano chiedendogli invio di truppe per sedare le rivolte. Romano disse che le truppe napoletane non intendevano più combattere per il Re e mai avrebbero combattuto per il Papa. Alle insistenze dell’alto prelato, Romano aggiunse che Re Franceso II° stava per fare ciò che dovrà fare il Papa in futuro, ossia perdere il potere.
Su indicazione dei consiglieri austriaco e francese, il 6 settembre Re Francesco II° lasciò Napoli andando a rinchiudersi a Capua e Gaeta con le ultime truppe fedeli. Imbarcatosi nel porto di Napoli, partì con sole tre navi militari, le altre rimasero nel porto. In attesa, nella rada, vi erano navi militari spagnole che scortarono il Re verso Gaeta. Il giorno successivo Liborio Romano mandò un telegramma a Garibaldi invitandolo ad entrare subito a Napoli dichiarandosi in attesa di ordini. Garibaldi salì in treno a Torre Annunziata e giunse a Napoli fra due ali di folla festante. Le notevoli truppe borboniche presenti in città non accennarono nemmeno ad una qualunque forma di resistenza. Rimanevano in mano borbonica le terre degli Abruzzi (Abruzzo e Molise), la Puglia che non era stata toccata, per ora, dalle vicende, oltre Gaeta e Capua. Negli Abruzzi il clero locale organizzò sommosse antiliberali.
Gli agenti piemontesi infiltrati nelle organizzazioni repubblicane informano Cavour che Garibaldi, conquistata Napoli, intendeva proseguire la marcia e liberare Roma, approfittando del grande esercito ai suoi ordini. I peggiori incubi di Cavour si addensavano, significherebbe sicuramente la guerra con l’Austria, protettrice dello Stato Pontificio e con la Francia di Napoleone III° che aveva dichiarato in più occasioni il suo interesse per l’Italia centrale, peraltro già furibondo per il colpo di mano pimontese nel Regno di Napoli. Inoltre una delegazione di napoletani si è presentò a Parigi a Luciano Murat, figlio di Gioacchino e di Carolina Bonaparte, offrendogli la corona del Regno delle Due Sicilie. Cavour comprese che occorre assolutamente fermare Garibaldi prima che rovinasse tutto. A conferma viene presentato il Decreto di Garibaldi del 10 settembre che dichiara la volontà non solo di liberare Roma, ma poi di proseguire e di liberare Venezia. Napoleone III° avvisava che non intende più dare seguito all’accordo segreto di Chambery secondo il quale il Piemonte era autorizzato ad annettersi pacificamente, per quanto possibile, delle Marche e dell’Umbria. Informato Re Vittorio Emanuele II, si decide di proseguire immediatamente all’annessione di Marche e Umbria e quindi di fermare Garibaldi prima che sia troppo tardi.
Nel frattempo si venne a sapere che il Generale francese Christophe de Lamoricière si pose al servizio del Pontefice e sta organizzando l’esercito papalino. Mentre l’esercito sabaudo si concentrava in Romagna, sotto la guida del Generale Manfredo Fanti, furono fatti scoppiare moti a favore dell’Italia ad Urbino Senigallia, Pesaro e Fossombrone. Immediatamente le truppe papaline repressero i moti e da Torino partì una vibrata protesta. Senza attendere risposta l’11 settembre l’esercito piemontese varcava i confini ed entrava nelle Marche. Pio IX lanciò il suo appello alle “nazioni cattoliche” affinché accorressero in suo aiuto, ma sia l’Austria che Francia e Spagna non risposero. Partirono alcune decine di volontari raccolti dalla buona volontà di qualche curato di campagna. Il 18 settembre Fanti sconfisse a Castelfidardo le truppe pontificie. Giunsero in aiuto le colonne dei Generali Cialdini e Della Rocca portando a 33.000 i militari piemontesi. Un secondo scontro avvenne presso Ancona, sempre a favore dei piemontesi. Il 3 ottobre Vittorio Emanuele II° sbarcò ad Ancona festeggiato dalla folla. Il Re si pose alla testa dell’esercito e, senza fretta, marciò verso sud.
Fra il 26 settembre ed il 2 ottobre avvenne la battaglia del Volturno ove le truppe garibaldine sconfissero quelle borboniche forti del doppio di effettivi, ma di questi circa la metà non furono impegnati negli scontri. Fu uno degli ultimi tradimenti ai danni di Re Francesco II°. Inoltre verso la fine della battaglia, giunsero a dare man forte ai garibaldini alcune unità piemontesi oltre a decine di cannoni, che furono decisivi alla scelta dei Borboni di ritirarsi a Gaeta, ove il Re si asserragliò con gli ultimi fedeli.
Il Regno delle Due Sicilie era ridotto a tre fortezze Gaeta, la cittadella di Messina che resisteva da mesi e Civitella del Tronto. Il 15 ottobre le truppe piemontesi, guidate da Vittorio Emanuele II° attraversarono il confine del Regno delle Due Sicilie e si diressero verso Gaeta. Ormai la partita era vinta, occorreva chiuderla subito.
Il 20 ottobre le truppe del Generale Cialdini sconfissero un distaccamento borbonico a Macerone. Il giorno successivo si svolsero i plebisciti a favore dell’annessione all’Italia “una e indivisibile con Vittorio Emanuele come Re Costituzionale”. Il plebiscito fu organizzato molto velocemente, ciò nonostante si votò in quasi tutti i comuni. L’affluenza fu molto alta ed i SI all’annessione furono il 99,21% nel il Regno di Napoli ed il 99,85% nel il Regno di Sicilia. A questo punto Cavour disse al Re che poteva incontrare Garibaldi. Era Vittorio Emanuele il designato, e che quindi Garibaldi si poteva togliere le eventuali idee repubblicane. Garibaldi capì e rimandò a tempi più favorevoli la liberazione di Roma.
Il 26 ottobre Garibaldi e Vittorio Emanuele II° si incontrarono a Teano. La prosopopea risorgimentale ci narra di Garibaldi che consegna al Re le terre del Regno delle Due Sicilie, ma non fu così, in quanto erano già state destinate dal plebiscito che fu trasformato in legge il 17 dicembre. In realtà l’incontro fu cordiale e si concordò il ritiro delle truppe garibaldine dall’assedio di Gaeta, lasciando il posto a quelle piemontesi. Inoltre il Re spiegò la situazione internazionale e Garibaldi accettò lo scioglimento dell’Esercito del Sud, ossia l’insieme di garibaldini, volontari locali, mercenari inglesi e truppe piemontesi di supporto.
In quei giorni 17.000 soldati borbonici, intenzionati a non arrendersi, attraversarono il confine con lo stato pontificio. Le truppe franco-papaline, nel timore di dare motivo ai piemontesi di attaccare, li disarmarono. Il 12 febbraio 1961 si arrese la cittadella di Messina, il 13 Gaeta ed il 20 Civitella del Tronto. Il Regno delle Due Sicilie non esisteva più. I Borbone si rifugiarono a Roma sotto la protezione del Papa.
Nel frattempo, il 4 ed il 5 novembre 1860, si svolsero i plebisciti nelle Marche e nell’Umbria, con esito in entrambi i casi superiore al 99% di consensi all’annessione al nascente Regno d’Italia.
Il 6 novembre Vittorio Emanuele era entrato a Napoli, ed il 9 novembre 1860, Garibaldi aveva salutato l’ammiraglio inglese Mundy e con la promessa scritta di ritornare il momento che l’Italia lo avesse chiamato, salì sulla nave Washington e si recò a Caprera.
Il 17 marzo 1861, al parlamento di Torino, con deputati eletti in tutte le nuove provincie, venne proclamato il Regno d’Italia e Vittorio Emanuele II° come suo Re Costituzionale. La costituzione era quella Albertina e curiosamente Vittorio Emanuele mantenne la numerazione “secondo”, nonostante fosse il primo Re del nuovo regno.

La Capitale a Firenze
Il regno era creato e le prime elezioni nazionali si erano svolte. Il 6 giugno 1861 morirà Cavour, ma ebbe il tempo di vedere il trionfo della sua opera. Un parlamento riunito con i rappresentanti di tutte le provincie del regno. Il tipo di elezioni era il medesimo di quello adottato precedentemente nel Regno di Sardegna, ossia uninominale a doppio turno, con elettori solamente fra quei cittadini uomini, liberi, ossia con fedina penale pulita, che dimostrassero di saper leggere e scrivere e pagassero più di un certo livello di tasse. Quindi gli elettori erano circa l’1,5% dei cittadini. Nelle liste elettorali del 1861 erano registrati 418.695 cittadini, però di questi si recarono alle urne, al primo turno, solamente 239.583. Ossia poco più della metà. Levate le schede bianche e nulle (su cui si trovava scritto “Viva Garibaldi” o “Viva la Repubblica”), significa che meno dell’1% degli italiani aveva votato. Ma perché una così bassa affluenza? Le elezioni avvenivano in questo modo: l’Italia era divisa in 459 distretti elettorali, questi erano suddivisi fra Urbani e Rurali. Per quelli Urbani non era un problema, chi si proponeva come candidato, si andava ad iscrivere nell’apposito registro, organizzava incontri pubblici e quindi il suo nome compariva sulla scheda elettorale. Quindi vi era, ad esempio, un candidato che si proponeva come seguace della politica di Cavour (Destra Storica), chi invece affermava che era una politica troppo rigida e che si doveva spendere di più per le infrastrutture (Sinistra Storica), poi vi era sovente un rappresentante della cosiddetta Estrema, ossia un Repubblicano, mazziniano, garibaldino che propugnava le idee Democratiche ed anche di una prima forma di Socialismo. Quindi al primo turno erano presenti sovente 4 o 5 candidati. Il giorno indicato gli elettori si recavano a votare nei seggi predisposti nelle scuole o negli uffici comunali, se nessuno superava il 50% dei voti, si andava al ballottaggio la settimana successiva fra i due candidati che avessero raccolto più consensi. Invece nei distretti rurali, la situazione era più complicata, in quanto il distretto comprendeva paesi e paesini, frazioni e villaggi. Presentati i candidati, normalmente un notaio o un farmacista, un proprietario terriero o un nobile locale, il giorno designato gli elettori si dovevano presentare nel paese indicato come capoluogo del distretto per votare. Ma molti avrebbero dovuto prendere il calesse o il cavallo e fare chilometri per andare a votare, inoltre si votò il 27 gennaio, in molte parti d’Italia faceva freddo, magari con le strade ricoperte di neve, cosicché gli elettori stavano a casa, con il risultato che vi erano come elettori solamente gli amici dei candidati o poco più.
Era un sistema imperfetto? Assolutamente sì, ma ricordiamo che 30 anni prima non votava nessuno. Era un primo passo. Per il senato non era un problema, in quanto era a nomina diretta del Re e per diritto ereditario. Inizialmente l’alta nobiltà piemontese, quindi di tutta Italia. Ma il senato veniva convocato dal Re solo nel caso di decisioni importanti e veniva utilizzato come Consiglio del Re. Ovviamente i nobili si recavano in Senato a loro spese.
Ma torniamo all’elezione della prima Camera dei Deputati del nuovo Regno d’Italia. Abbiamo detto che vi erano 459 distretti e altrettanti furono i deputati eletti. All’epoca i Partiti non erano vere organizzazioni elettorali, erano organizzazioni politiche volte a far conoscere il proprio ideale di società. Quindi i candidati si presentavano tutti come indipendenti, indicando o meno a quale corrente appartenessero. Gli Unici veramente organizzati erano i mazziniani del Partito Repubblicano od i garibaldini del Partito d’Azione, poi vi erano i rappresentati del movimento Socialista, che non si organizzarono in partito sino al 1892. Ma vediamo i risultati elettorali secondo i gruppi che si formarono in parlamento:

I primi provvedimenti da prendere, per il nuovo parlamento furono, l’unificazione della moneta, con tre banche di emissione Torino, Firenze e Napoli, l’unificazione dei sistemi di misura, adottando quelli definiti a suo tempo dalla Rivoluzione Francese: metro, chilogrammo e litro. La creazione di un esercito nazionale e della Guardia Nazionale (su esempio della Francia Rivoluzionaria), l’unificazione delle leggi, tribunali etc. Poi vi era la questione della lingua. Questo non era un problema secondario. Persino Re Vittorio Emanuele II° e Cavour balbettavano appena l’italiano, o toscano come si diceva allora, alla corte sabauda si parlava francese o piemontese. L’utilizzo delle lingue locali era diffusissimo in tutta Italia. Quindi, tramite l’imposizione della Lingua Nazionale fu un’operazione lunga e difficile.
Poi si presentò la questione della capitale. I Liberali, in massima parte prospettavano lo spostamento a Firenze, culla della lingua, dell’arte, della cultura. I Repubblicani a Roma (che era ancora sotto il papato), per ricreare un’Italia legata alla Roma Repubblicana di 2.000 anni prima. L’idea di mantenere Torino non era gradita dai rappresentanti delle altre regioni, città troppo francese e troppo vicina al confine. Vennero anche avanzate altre proposte, come Pavia, capitale del Regno d’Italia Longobardo o la doppia capitale Firenze-Napoli. Dopo lunghe discussioni si optò per Firenze, patria di Dante, padre spirituale della Patria e della sua lingua. Salvo poi trovare nei nostri libri di storia a scuola che la capitale fu spostata a Firenze “per avvicinarla a Roma”, affermazioni senza il senso del ridicolo.
Lo spostamento della capitale a Firenze non fu né semplice né indolore. A Torino vi furono sanguinose rivolte da parte di quei commercianti ed artigiani che vivevano degli appalti governativi, oltre ai dipendenti statali che si vedevano improvvisamente nelle condizioni di dover vendere casa, abbandonare parenti ed amici per trasferirsi in una città sconosciuta. Lo stesso Cavour si recò a Firenze e non gli piacque, città di una bellezza medievale e rinascimentale e non una “piccola Parigi” con i suoi viali ed i suoi portici come Torino. Il governo, nel 1864, affidò all’urbanista Giuseppe Poggi l’ambizioso progetto di ridisegnare Firenze, creando vie, piazze, prevedendo palazzi ministeriali ed abitativi per i nuovi cittadini che vi sarebbero arrivati. I lavori furono grandiosi ed il 3 febbraio 1865 l’apposita legge indicò Firenze come capitale del Regno.
Nel frattempo Cavour era morto, 6 giugno 1861, lasciando incompiuta l’opera dell’Unità d’Italia. Di lui tutti ricordano la frase che, si afferma, abbia pronunciato prima di morire: “Ricordate! Libera Chiesa in Libero Stato!”. Non sappiamo se l’abbia veramente pronunciata, ma sicuramente apparteneva al suo pensiero: separazione della Chiesa dallo Stato. Vi furono voci, mai del tutto sopite, che l’improvvisa morte di Cavour sia stata dovuta ad un avvelenamento per vendetta da parte dei Francesi, sentitisi usati e poi traditi o di fedeli dei Borboni di Napoli. Non abbiamo idea se ciò sia vero, ma possiamo affermare che è possibile. In effetti Cavour si sentì male il 29 maggio 1861, il medico curante affermò che si trattava probabilmente di una ricaduta della malaria che Cavour aveva contratto in gioventù. Non si riprese e morì il 6 giugno. Resosi conto di essere alla fine dei suoi giorni, il 5 giugno fece chiamare un amico, Fra’ Giacomo da Poirino, questi convinse (si dice) Cavour a confessarsi e quindi gli diede l’assoluzione e l’estrema unzione. Poiché Cavour era scomunicato dal 1855 per le sue posizioni anticlericali, Papa Pio IX convocò il frate a Roma, riteniamo per conoscere le ultime volontà del grande statista, poi, ottenuta nessuna risposta, condannò il fraticello per aver dato l’assoluzione ad uno scomunicato. Il frate fu poi perdonato nel 1881 da Papa Leone XIII.
FINE TERZA PARTE – CONTINUA…
Di MARCO E. DE GRAYA
(Prima parte: ORIGINE DELLA MASSONERIA IN ITALIA)
(Seconda parte: UNITÀ D’ITALIA E MASSONERIA)