A quante domande cerchiamo risposta? Questa è già una bella domanda, che implica un certo grado di consapevolezza di sé. Se parliamo, infatti, di domande che l’io rivolge a se stesso, siamo già sulla buona strada. Il dialogo interiore, in un flusso circolare, è una condizione molto importante per l’evoluzione coscienziale. Ma come si può arrivare a questo stadio, con tutto il rumore di sottofondo in cui siamo immersi?

Parliamo allora delle domande, delle tantissime, innumerevoli domande che ci vengono rivolte continuamente dal momento in cui siamo svegli a quello in cui perdiamo coscienza nel sonno: ti sei svegliato in orario? Hai ricordato tutto quello che devi fare? Sei pronto per affrontare la giornata? Sai come vestirti? Hai controllato cosa manca in casa prima di uscire a fare la spesa? Hai controllato se le persone di cui ti prendi cura hanno bisogno di qualcosa? O hai dato tutto per scontato, senza pensarci? E a cosa stai pensando? E se quello che stai facendo non andrà bene?

Domande assillanti, giudicanti, che si innalzano come cori di voci sovrapposte. Voci che sarà necessario spegnere, come diremo successivamente.

Domande che a volte hanno il punto esclamativo e si trasformano in vere e proprie accuse, solide e spigolose, incrollabili e autorevoli, tanto da far paura e costringere a chinare il capo interiore sotto lo stretto passaggio del senso di colpa e della percezione di inadeguatezza. Un meccanismo dilaniante, lacerante e opprimente che non è altro che la causa del sentirsi vissuti dalla vita, strattonati continuamente dal fare passivo che è nemico dell’essere.

Siamo circondati da domande. E non bastano quelle interiori, alle quali si aggiungono presto quelle esteriori, per così dire “reali”, quelle che possiamo leggere con gli occhi o sentire con le orecchie, perché le troviamo nella comunicazione scritta e verbale di persone e cose che si rivolgono a noi, all’individuo. Domande alle quali bisogna rispondere! Se non rispondi, come fai? Poi ti giudicano, ti accusano, ti condannano, non vai bene, non piaci, non sei più buono, faranno a meno di te, ti emargineranno, ti ritroverai solo, ti sentirai inutile.

Ed ecco che la giornata ordinaria, letta in questo modo, non è altro che un continuo intrecciarsi e sovrapporsi di domande e risposte, pressoché automatiche e frenetiche, in cui né la domanda serve per chiedere né la risposta serve per spiegare. Nessuno, in questo giochino distruttivo, vuole comprendere un bel niente. Le domande servono solo come input all’azione, come stimolo a continuare a fare, perché se ricevo queste domande vuol dire che ci sono cose da fare, urgenze da sbrigare, esigenze da soddisfare. E se rispondo vuol dire che sono pronto, che ci sono, che esisto, che resisto, che gli altri possono fare affidamento su di me, che la società mi considera, che ce la sto facendo, che posso ancora vincere, che forse riesco un po’ a tirare il naso oltre la superficie di questo oceano oscuro nel quale annaspo, attratto da quella luce lì sopra.

Il mondo domanda, l’io risponde.

Ma il mondo domanda per comandare, perciò l’io risponde per esistere.

Il mondo comanda, l’io resiste.

E se la risposta fosse il silenzio? E se per esistere dovessi smettere di resistere? Che cos’è poi questa resistenza, se non uno strumento che continua a legittimare stupidamente tutte queste assurde domande che mi assillano senza lasciarmi un attimo di tregua per capire cosa realmente sto facendo? E se la risposta fosse la non-risposta?

Tra le domande della vita sociale quotidiana, in realtà le più importanti o forse le uniche concretamente incidenti sullo stato d’animo dell’individuo, sono le domande che gli rivolge la sua psiche, le domande che ci facciamo da soli. Sono pezzi di conversazioni astratte, quasi virtuali, che riecheggiano nella nostra testa come se avessimo una grotta tra le orecchie. Domande che necessitano di riproporsi fino allo sfinimento (dell’individuo) per continuare ad acquisire energia, assorbendola dalla mente di ciascuno di noi; altrimenti avrebbero già tolto il disturbo, lasciando spazio alla pace del silenzio della coscienza. O meglio, la pace della voce della coscienza che, non avendo bisogno di domande, non fa rumore. La coscienza infatti è domande e risposte contestualmente, perciò non si esprime con domande sospese cui dover trovare una risposta ma con la risposta ancor prima della domanda, la risposta che spiega la domanda in anticipo così che all’istante sia tutto già chiarissimo.

Ma se le domande assillanti della quotidianità nascono dentro la nostra testa, è davvero necessario rispondere fisicamente alle domande sonore e materiali che ci impongono di agire, fare, comportarci, assicurare la nostra partecipazione, garantire l’impegno e l’esecuzione dei compiti, l’affidabilità e la puntualità?

Un’altra domanda, questa. Paradosso solo apparente, però: è una domanda che contiene già la risposta, quindi è una domanda di puro essere senza fare. Già, perché le domande che si trasformano nel guinzaglio dell’individuo sono volte al fare, mentre le domande interiori sono volte all’essere. Se segui la guida esteriore, sei schiavo; se segui la guida interiore, sei e basta. E nel secondo caso puoi anche seguire la guida esteriore per scelta, per divertimento, per fare l’esperienza, ma non diventi comunque schiavo perché stai solo al gioco, reciti una parte con consapevolezza, al massimo sovrapponendo i comandi esterni ai tuoi comandi interni. In pratica, fai credere agli altri che stai facendo quello che vogliono loro, ma in realtà lo stai facendo per te stesso. Che si tratti dello stesso comportamento, della stessa scelta, della stessa azione, non ha importanza: ciò che conta è il motivo per cui fai, perché nel motivo sei.

Era necessario sviluppare questi passaggi per poter ritornare alla domanda precedente, quando ci siamo chiesti se la risposta non fosse il silenzio della non-risposta.

Abbiamo già detto, parlando del problema dell’efficacia, che nel tiro alla fune non vince chi tira più forte ma chi molla la fune: ecco la non-risposta a tutte queste domande involutive, il non rispondere come risposta, come azione coscienziale che non va confusa con la reazione. Il silenzio da opporre alla distruzione degli impulsi quotidiani non è infatti una ripicca, un mutismo selettivo, uno stare zitti per protesta facendo notare appunto che non si sta parlando: si tratta di un silenzio che viene da dentro, dalla consapevolezza che alla domanda non è necessario né rispondere in un modo né rispondere all’opposto, ma non è necessario nemmeno rispondere come non rispondere, come ogni altra possibile forma di dualità.

Alla domanda involutiva la risposta è che la domanda non esiste.

Perciò quando qualcuno, fuori o dentro la nostra testa, ci chiede se abbiamo fatto o meno una certa cosa, davanti alle due possibili ipotesi duali “sì/no” e “rispondo/non rispondo” l’azione coscienziale evolutiva è la consapevolezza che non c’era nessuna cosa da fare per forza, non c’è nessuna spiegazione da dare, non c’è nessuna domanda cui rispondere, non c’è nulla da dire. Solo così le domande cesseranno, spegnendosi da sole, perdendo via via legittimazione e forza.

Abbiamo così anticipato in parte il tema che svilupperemo affrontando la necessità fondamentale di spegnere le voci, passaggio imprescindibile nel percorso di acquisizione di consapevolezza. Ma più specificamente in merito alle domande, intese anche come pretese di azioni e comportamenti, è forse utile sottolineare come si tratti davvero di catene schiavizzanti, di un loop terribile che ci trascina dappertutto e ci fa rimanere ancorati ad una situazione sfibrante, stancante, svuotante. Non riusciamo ad essere quello che vogliamo veramente essere, finché continuiamo a pensare di dover rispondere a certe domande, finché quindi continuiamo a pensare che certe domande esistano. E a chi pensa, in replica, che con la risposta del silenzio evolutivo si rischia di rovinare le proprie relazioni sociali, familiari e lavorative, perdendo tante cose della propria esistenza, la risposta è nell’obiezione stessa. Chi pensa di aver bisogno di quelle relazioni, di quei legami, di quelle situazioni, di quegli oggetti per stare bene, cioè per essere se stesso in coscienza, non ha cominciato a chiedersi io chi sono?, la domanda evolutiva, la domanda che presuppone l’essere e non impone alcun fare. Nel momento in cui ti domandi chi sei, hai cominciato ad essere te stesso un po’ di più. È il primo passo verso la pienezza di sé, la consapevolezza che consente di essere quello che vuoi veramente. Ma se per essere vuoi avere, allora vuoi essere posseduto. Se vuoi avere legami con cose e persone, non sei tu a tenere le redini ma quelle cose e quelle persone a tenere te legato in catene. Perché io sono l’altro e io sono quello che non sono, anche nel senso che le domande degli altri ci rimbombano nella testa in quanto nostre, autoprodotte e proiettate solo virtualmente all’esterno di noi, in un meccanismo incessante di rimbalzi energetici che creano la realtà intorno all’individuo, inconsapevole del meccanismo stesso.

La riflessione si conclude senza ulteriori domande, ma se a questo punto il lettore sente nella sua testa qualcuno che gli chiede se ha capito cosa ha letto, o perché mai ha perso del tempo a leggere queste righe, è tutto legittimo e rispettabile ma forse sarebbe utile rileggere dall’inizio. Nel silenzio della propria consapevolezza.

di Simone Aversano

  • Questo è il sesto articolo di una serie ispirata al percorso “Conosci te stesso”, i primi articoli sono disponibili cliccando sui seguente link:

1 – “Siamo quello che non siamo“; 

2 – “Il costo dell’esperienza“;

3 – “L’altruismo è il peggior egoismo“;

4 – “Io sono dentro lo specchio“;

5 – “Il problema dell’efficacia“.

  • Per approfondire le tematiche dell’articolo, ecco la playlist alla terza stagione del format “Conosci te stesso”, appuntamento settimanale con il dr. Pierluigi Mulattieri andato in onda sul canale youtube MesbetTV:

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