La fine del percorso è l’inizio.

Non un nuovo inizio ma il vero inizio, dove comincia la parte bella, forse anche divertente e interessante. Il percorso di acquisizione di consapevolezza, differente per ogni individuo, non è finalizzato al nulla, al vuoto, alla privazione, alla sottrazione del tutto e dal tutto. Non è l’ascetismo il rifugio che sta sulla cima della montagna, che ci attende da sempre mentre procediamo lungo il cammino verso la nostra coscienza.

Per essere bisogna fare e per fare bisogna essere.

Probabilmente sta tutto qui, nel senso che l’esperienza del fare è necessaria per acquisire consapevolezza ma per poter fare davvero, con consapevolezza appunto, è necessario aver prima conosciuto se stessi raggiungendo lo stadio dell’essere. Tutto questo può sembrare astrazione filosofica e forse in parte lo è, ma in parte è sicuramente verità pratica ed empirica.

Su MesbetTV il Dott. Pierluigi Mulattieri ha parlato spessissimo del dualismo Zorba-Buddha, due modalità dell’essere e del fare che sono in contrapposizione solo nella misura in cui sono in unione, in integrazione e congiunzione. Serve Zorba per essere Buddha, proprio come serve fare per essere. La coscienza è in quanto si manifesta, e d’altra parte non saremmo qui, non esisterebbe questo virtuale se la coscienza primordiale non avesse deciso ad un certo punto del suo essere uno di voler essere due per fare l’esperienza del duale. Anche Osho spiega questo rapporto nei termini della costruzione, con la metafora dell’edificio che necessita delle sue fondamenta. Zorba come fare dionisiaco che sperimenta tutto il male, Buddha come essere apollineo che sa in quanto è.

L’alchimia parte dalla nigredo, dalla putrefazione, dall’oscurità e possiamo dire dalla sporcizia, per arrivare all’albedo e poi alla rubedo. Non c’è altra via. Devi discendere per ascendere. Se vuoi arrivare in alto devi partire dal basso, non puoi saltare direttamente sulla sommità. Che esperienza sarebbe? Se il senso è fare l’esperienza, che valore ha sistemarsi comodamente già all’arrivo? Qui potremmo aprire una parentesi enorme sui disastri psicologici della società attuale, dove il tutto-e-subito è il paradigma di scelte, azioni e modalità dell’essere. Ma ne parleremo altrove in futuro, forse.

Il punto è che l’obiettivo non è vincere ma giocare. Nel giocare c’è già il vincere, perché solo se giochi puoi vincere mentre senza giocare non hai mai vinto nemmeno quando vinci. Ma se giocare serve per vincere, una volta che hai vinto cosa fai? Smetti di giocare? È un’ipotesi, una scelta possibile e legittima. Ma smettendo di giocare non solo si smetterebbe di vincere, soprattutto si toglierebbe valore sia al gioco che alla vittoria, sia al fare che all’essere, sia a Zorba che a Buddha, sia all’uno che al duale, e la coscienza sparirebbe come se non fosse mai esistita. Non riguarda solo il cosmo e i piani superiori, riguarda frattalicamente ogni essere, ogni individuo e quindi anche te. Lo schema è sempre lo stesso, la matrice si ripete e si reitera infinitamente perché la sua natura è quella, non può fare altro. Inutile illudersi di potersi sottrarre, di poter sfuggire al virtuale dell’esperienza. Nemmeno con la morte, perché quella è solo un passaggio attraverso un varco in cui l’essere continua ad essere preparandosi a fare altrove, in altro spazio, tempo ed energia, per continuare il discorso lasciato in sospeso.

Hillman, in quella sua meravigliosa opera che è Il suicidio e l’anima, dice che quando muore il corpo e termina l’esistenza non sappiamo se muoia anche Anima. Possiamo sommessamente aggiungere che in realtà siamo certi che Anima non muoia affatto. E il suicidio, anche a vederlo come grandioso atto di coraggio per dichiarare con forza che l’individuo appartiene a se stesso e non alla società né a Dio, non è la fine. In quanto modalità di morte è solo un modo per trapassare e proseguire. Ma non finisce lì, non finisce così, non si smette di giocare solo perché si vuole smettere. Dipende da come hai giocato e come hai vinto, e se sei riuscito a vincere è solo perché hai giocato.

Parliamo quindi della fuga ascetica, che troviamo non solo dietro le etichette di follia spiritualista nelle sue varie forme raggruppate nello spazio degli emarginati dalla società ufficiale, ma pure dentro la società ufficiale stessa con le sue ipocrisie materialistiche e iperrazionalistiche: chi è il sacerdote, per esempio, se non uno che ha deciso di fuggire alla vita prematuramente per fingere di essere senza prima aver fatto? Il sacerdote è un matto spiritualista o un prodotto di una società ateista, che impone di seguire le effigi di appartenenza altrimenti sei solo, reietto, emarginato e, appunto, matto? Molti si chiedono, magari senza dirlo apertamente, come può mai guidare alla vita santa un uomo che ha scelto di non vivere, di non fare l’esperienza. Come può un sacerdote condurre corsi prematrimoniali se del matrimonio e della vita matrimoniale non ha fatto esperienza? Con questo non si vuole generalizzare o demonizzare, anzi se siamo qui è proprio per cercare di contrastare ontologicamente il meccanismo della demonizzazione (e quindi anche quello della santificazione). Ma il punto è che, se nessuno può insegnare niente a nessuno se non mostrandosi come esempio, dobbiamo farci esempio per gli altri. Il ché non significa ossequiare la smania contemporanea di costruire idoli posticci che siano modelli di comportamento tramite la finzione social, bensì mostrarci come esito della nostra esperienza. Sei felice? Allora dimmi cosa hai fatto per essere felice. Sei infelice? Allora cosa me ne frega della tua spiegazione razionale su quanto sia buono, giusto e opportuno fare quello che hai fatto tu?

Vuoi avere ragione o essere felice?

Vuoi avere o essere?

Sei, allora dimmi cosa fai.

Ciò che sei racconta cosa fai e cosa hai fatto finora, ma soprattutto con quale consapevolezza l’hai fatto e lo fai. Come la materia che è un collasso d’onda, come la particella che emerge dalla nebulosa dell’onda di possibilità quantiche, così io sono tutto quello che ho scelto di essere, perciò tutto quello che ho fatto.

La fuga, dicevamo. Senza sporcarsi non ci si può ripulire, senza stare al buio non si può aspirare alla luce, senza il malessere non avrebbe senso desiderare il benessere. E potremmo continuare, gli esempi si trovano letteralmente in ogni possibile contrapposizione e opposto. Ma il duale è unità e integrazione perché i due elementi si accompagnano e bilanciano conferendosi reciproca dignità all’esistenza. Senza l’uno, neanche l’altro. A che serve, quindi, evitare la vita se non a condannarsi a viverla di nuovo, altrove, un’altra volta, in qualche altro modo? Tanto vale vivere qui e ora, con consapevolezza e volontà, appropriandosi di se stessi e facendo ciò che si è invece di quello che ci viene imposto da qualcun altro per qualche strana ragione. Certo, anche essere schiavi è un’esperienza utile, ma solo allo scopo di smettere di esserlo, di liberarsi con l’evoluzione. Ancora una volta è la consapevolezza a fare la differenza.

Siamo giunti perciò alla fine di questo percorso, di queste riflessioni un po’ circolari, un po’ sbilenche, un po’ discutibili, sicuramente in evoluzione. Una tappa di un percorso, mia e tua, che forse servirà nel prosieguo per ricordarci chi eravamo, cosa siamo stati e come abbiamo fatto per arrivare dove saremo.

Scrissi una frase quasi dieci anni fa, ma sono sempre stato convinto di non averla pensata io, che mi sia invece arrivata. Da dove non so, ma forse la frase stessa lo spiega:

Sono andato oltre, lungo la strada verso quello che non ero: lì ho trovato me stesso ad aspettarmi”.

Andiamo oltre e ricongiungiamoci con ciò che siamo già: il percorso serve per comprendere perché. E la fine dice che se ho sofferto tanto, faticato tanto, lavorato tanto per acquisire consapevolezza, per vibrare alto, per integrarmi con la mia coscienza, tutto questo sarebbe stato sprecato se dopo non continuassi l’esperienza. Se l’esperienza serve per comprendere, comprendere serve per l’esperienza, un’altra esperienza, quella più divertente. Ho impiegato discrete risorse per arrivare sulla vetta: perché non rifare il giro dall’inizio, questa volta sfruttando il bagaglio esperienziale che ho acquisito la prima volta? Dopo aver giocato e vinto, ho capito come si vince: perché non rigiocare di nuovo e godermelo di più? Ho combattuto per essere più forte, per sfuggire al male, ai problemi, alla sofferenza: proprio ora che sono diventato più forte devo fermarmi?

Fare l’esperienza per acquisire consapevolezza per fare l’esperienza.

Fare per essere per fare. Senza smettere, anzi continuando ancora meglio e di più dopo aver compreso come funziona. La prima parte è per capire, la seconda è per divertirsi. Fare tutto, fare esperienza di tutto per poi rifarlo meglio, quindi anche evitando certe esperienze o rifacendole in modo diverso, come prova della consapevolezza acquisita. In questo senso, essere grati anche per tutte le negatività perché sono lo strumento più potente nell’evoluzione, sempre a patto di comprenderne il significato.

Liberi grazie alla consapevolezza siamo pronti a fare quello che ci fa essere felici.

Post scriptum:

Ringrazio tutti i lettori di questa rubrica, nata nel suo stesso percorso, in quanto inizialmente voleva essere solo un modo per comunicare, senza l’idea di cosa avrebbe potuto diventare. Erano anni che non scrivevo più, forse un decennio. Di queste tematiche non avevo mai scritto prima ed ho scoperto di poterlo fare (non so quanto bene) solo facendolo. In questo senso, questa esperienza si spiega da sola attraverso il suo esempio intrinseco. Ringrazio la redazione di Facciamo Finta Che, Gianluca, Mesbet, Pierluigi Mulattieri, tutti i fedelissimi del progetto e tutti i relatori che hanno contribuito alla conoscenza evolutiva in questi anni di video e contenuti, di cui non me ne sono perso nemmeno uno. È stato per me l’inizio del mio percorso di acquisizione di consapevolezza, e se oggi posso dire di aver cambiato in meglio la mia vita e il mio lavoro lo devo tantissimo a questo.

Grazie, a presto e vi auguro di essere sempre liberi e felici!

di Simone Aversano

  • Questo è il decimo articolo di una serie ispirata al percorso “Conosci te stesso”, gli articoli precedenti sono disponibili cliccando sui seguenti link:

1 – “Siamo quello che non siamo“; 

2 – “Il costo dell’esperienza“;

3 – “L’altruismo è il peggior egoismo“;

4 – “Io sono dentro lo specchio“;

5 – “Il problema dell’efficacia“;

6 – “Il silenzio è la risposta“;

7 – “La paura è solo ignoranza“; 

8“Essere senza avere (bisogno di nulla)”;

9 – “Spegnere le voci“.

 

  • Per approfondire le tematiche dell’articolo, ecco la playlist alla terza stagione del format “Conosci te stesso”, appuntamento settimanale con il dr. Pierluigi Mulattieri andato in onda sul canale youtube MesbetTV:

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