Qual è la cifra dei nostri bisogni in quello che facciamo? Quanto siamo condizionati, nelle nostre scelte e comportamenti, da ciò di cui pensiamo di avere bisogno? Quanto siamo manipolati e trascinati a spasso dalle necessità quotidiane e dagli obiettivi di più lungo periodo?

Un altro necessario quesito evolutivo, un’altra domanda da rivolgere a se stessi per provare a conoscersi di più e in modo più vero. Io chi sono? passa moltissimo attraverso la conoscenza e comprensione dei propri bisogni, o comunque di tutto quello che pensiamo sia necessario per la nostra vita.

Un approccio destrutturante può aiutare a procedere oltre lo stallo apatico della routine, che mai mette in discussione le abitudini. Faccio quello che faccio perché l’ho sempre fatto, è utile, è imprescindibile, è necessario nel mio contesto sociale, è segno distintivo dell’identità che ho accettato e non voglio perdere, è a volte l’unica cosa che so fare, è ciò che tutto sommato “va bene” e mi evita il rischio di finire male, di sbagliare, di perdermi, di non sapere come andranno le cose, di essere giudicato dagli altri e dovergli spiegare perché ho fatto una cosa nuova e diversa. Ma scomponendo la materia composta nella somma delle sue parti semplici possiamo fare luce sulla struttura psicologica di questo meccanismo che, di fatto, ci impone cosa fare e di conseguenza chi essere.

Io ho bisogno. Io-Ho-Bisogno.

Io in questa fase non può che essere una conoscenza superficiale del vero Io, una percezione quasi ignara, inebetita, che dà per scontata tutta una serie di dettagli che solo il percorso di acquisizione di consapevolezza può svelare e mostrare nel loro profondo, fino alla configurazione del fatto di conscio e inconscio. Quindi Io come io che sto pensando, io che sto parlando, in altre parole io che faccio, questo qui precisamente, chiunque sia e comunque sia fatto. Ma vedremo che questa affermazione è dotata di circolarità.

Ho nel senso di ricevere più che possedere, quindi un attributo un po’ spersonalizzante e alienante che caratterizza un certo grado di debolezza e una scarsa padronanza di quell’Io. Io-Ho perché ce l’ho qui, nella mia pronta disponibilità, come accessorio della mia persona che però, proprio per questo, ne diviene attributo e lineamento, quasi inglobato nell’essere. Come dire “io ho una maglietta rossa” quindi “io sono quello con la maglietta rossa”. Non è un avere frutto di scelta e volontà ma, appunto, di necessità; un avere che trasforma il modo di essere e non il contrario. In questo senso è più un ricevere passivo che un conquistare attivo.

Bisogno come sintesi della mancanza, quindi della separazione tra l’Io e l’oggetto del bisogno. Mi manca qualcosa perciò ne ho bisogno, ossia possiedo quella mancanza e contengo quella separazione. Dentro di me c’è uno spazio vuoto da colmare e calmare attraverso azioni che significano scelte e comportamenti, modi di essere e modi di fare, circostanze in cui mi vado a collocare relazionandomi con il contesto e con gli altri. È chiaro che il passaggio da Ho-Bisogno a Sono-Bisogno è brevissimo, praticamente istantaneo, perché nel momento in cui percepisco quel vuoto, quella mancanza, quella separazione, mi sto già sintonizzando sul suo riempimento, sull’acquisizione che ripristina una sorta di unità, sulla conquista che riconcilia l’essere.

Io-Ho-Bisogno: io sono tutto quello che faccio per soddisfare il mio bisogno.

Il punto di partenza è un essere non integrato, e questo è ovvio e naturale perché tutti, in modi e gradi diversi, siamo qui per comprendere e fare l’esperienza, acquisendo consapevolezza lungo un percorso che comincia lì dove siamo meno integrati rispetto al punto di arrivo, anche se l’inizio è la fine e la fine è l’inizio, così come ogni punto del percorso, nella misura in cui l’acquisizione di consapevolezza finale dipende da tutti i passaggi intermedi ma altresì l’inizio e tuto il prosieguo dipendono dalla conclusione.

Ho bisogno perché il mio essere non è del tutto pieno ma parzialmente vuoto. Ed ecco che torna nella pratica quanto abbiamo già detto in merito all’espansione della coscienza, che possa giungere ad inglobare porzioni sempre più ampie del proprio inconscio e della propria Ombra, rischiarandola con l’atto della conoscenza di sé. In altre parole, se prima di aver bisogno io mi fossi sforzato di riempire quel vuoto in maniera endogena, non avrei mai avuto quel bisogno; o meglio, non avrei mai avuto consapevolezza dello stato di bisogno perché avrei già istantaneamente soddisfatto la necessità con i contenuti e le energie già presenti dentro di me, senza dover uscire fuori ad acquisire qualcosa di esteriore. Ovviamente, percepire il bisogno e affrontarlo per soddisfarlo è un’esperienza che va fatta almeno una volta, sul piano ontologico, e anche più volte per chi… ne ha bisogno! Ma solo fino a non averne più bisogno.

Un esempio può aiutare la chiarezza: se ho bisogno di partecipare ad un evento musicale è perché, in fondo, ho bisogno di una certa emozione o di un po’ di tempo di svago, ma se io lavoro su me stesso per sentirmi bene come se avessi partecipato ad un evento musicale ecco che non devo andarci, con tutto quello che significa sul piano economico e materiale, perché senza andarci è come se ci fossi già andato. In questo modo, il bisogno si appaga da solo nell’istante in cui nasce, il vuoto si riempie nell’istante in cui si crea, come una risposta che precede la sua domanda. Il vuoto è pieno e il pieno è vuoto perché senza l’uno non esisterebbe l’altro, e viceversa. Così il vuoto si annienta trasmutandosi in pieno nell’istante in cui, creandosi, acquisisce coscienza di sé. E ciò vuol dire anche che ogni pieno tornerà ad essere vuoto, a meno di rompere il legame del bisogno.

Non è facile, chiaramente, vivere questa condizione con tutto quello che c’è da fare ogni giorno, ma il punto è proprio chiedersi se davvero abbiamo tutte queste cose da fare. Il costo dell’esperienza è non fare l’esperienza, ma il costo del fare qual è? In molti casi è proprio quello di non fare l’esperienza, rinunciando a mettersi in gioco diversamente dal flusso quotidiano delle cose “da fare”. Per esempio: devo andare a cena fuori con gli amici perché sennò mi escludono e rimango solo oppure ci rimangono male, ma in questo modo, oltre a fare quello che non voglio veramente, sto rinunciando all’opportunità di fare tante altre esperienze, come vedere che effetto fa quando gli amici mi escludono o ci rimangono male (capire quindi se sono veri amici), oppure che effetto fa rimanere solo o semplicemente trascorrere la serata facendo cose mai fatte prima. E allora dobbiamo ragionare sull’origine del bisogno: è davvero qualcosa che nasce dentro di noi oppure è una mancanza indotta?

Il bisogno può essere di entrambi i tipi, ma quando io accetto di “dover” fare tutto quello che la società mi richiede allora i miei bisogni sono prevalentemente indotti e quindi esogeni. Ma un bisogno esogeno non può essere istantaneamente soddisfatto con l’energia endogena, perché non funziona così. Quello che ho dentro va bene per quello che ho dentro, diversamente per quello che viene da fuori servirà molto più sforzo e impegno per colmare i vuoti. Questo perché, in attesa dell’acquisizione di consapevolezza sulla natura esteriore dei miei bisogni posso solo continuare a cercare di soddisfarli senza mai riuscirci completamente, come svuotare il mare con un secchiello. L’esterno crea il vuoto dentro di me, io attivo la mia energia interiore per riempirlo e, quando ho finito (ammesso di riuscire a “finire” per un solo istante), ecco che il fattore esterno ricomincia a creare lo stesso vuoto in un’estenuante gioco in cui io posso solo perdere, illudendomi ad ogni tentativo di poter vincere la prossima volta.

E allora come posso fare ad affrontare tutti questi bisogni che mi portano a spasso, spingendomi a fare tutto quello che faccio e di conseguenza ad essere tutte queste scelte e azioni con cui mi illudo di stare bene?

Il passo fondamentale consiste nello spegnere le voci. Spegnere una per una tutte le voci che parlano nella mia testa per volontà di qualcuno che in realtà non sono io. Voci di obblighi, necessità, paura, senso di colpa, inferiorità, inadeguatezza, alienazione. Solo all’esito di questo difficile e graduale processo di unificazione di sé, potrò riscoprirmi a vivere libero e felice senza smettere di fare. Perché il problema del bisogno non è l’oggetto del bisogno ma il bisogno stesso. Ed ecco allora che, mettendo a tacere le voci dei bisogni estranei al mio vero Io, posso fare tutto quello che ho sempre fatto e anche di più, ma per il puro piacere di farlo come persona libera e felice: libera dal meccanismo dei bisogni e felice di non aver bisogno di avere bisogno.

di Simone Aversano

  • Questo è l’ottavo articolo di una serie ispirata al percorso “Conosci te stesso”, i primi articoli sono disponibili cliccando sui seguenti link:

1 – “Siamo quello che non siamo“; 

2 – “Il costo dell’esperienza“;

3 – “L’altruismo è il peggior egoismo“;

4 – “Io sono dentro lo specchio“;

5 – “Il problema dell’efficacia“;

6 – “Il silenzio è la risposta

7 – “La paura è solo ignoranza“.

  • Per approfondire le tematiche dell’articolo, ecco la playlist alla terza stagione del format “Conosci te stesso”, appuntamento settimanale con il dr. Pierluigi Mulattieri andato in onda sul canale youtube MesbetTV:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *